La Chiesa mediale

Sfide, strutture, prassi per la comunicazione digitale

Perché parlare di una Chiesa mediale? La risposta sembrerebbe quasi scontata, anche se – nonostante gli appelli di papa Francesco – ancora in troppi «esigono» una Chiesa «al suo posto», tra altari e sagrestie. E invece in una società impastata di comunicazione la Chiesa, missionaria per natura, non può stare a guardare!

Perché, allora, parlare della Chiesa è mediale?

Con il processo di digitalizzazione si è venuta a consolidare quella che il semiologo Ruggero Eugeni definisce «condizione postmediale». In questi ultimi due decenni il contesto comunicativo risulta caratterizzato da una sorta di «svolta mediale» in forza della quale «non è più possibile stabilire con chiarezza cosa è mediale e cosa non lo è; né si può definire quando entriamo in una situazione mediale e quando ne usciamo. I media sono ovunque. Noi stessi siamo i media» (Eugeni, La condizione postmediale).

Ma che cosa sono questi media?

Più che meri strumenti sono «riflessi dell'umano». Quando parliamo di media in un certo senso stiamo parlando di noi. Quindi, più che definire il concetto di «media», occorre comprendere la natura del legame sociale «uomo-media», rendersi conto che «non sono i media a mutare l'uomo, ma è l'uomo a intervenire in essi, ad "adoperarli" come proprio riflesso per qualsiasi istanza e bisogno».
E se l'uomo è mediale, anche la Chiesa e la sua intera azione pastorale è divenuta mediale. E questo non può che provocare in noi un'attenta riflessione su prospettive, opportunità, sfide prassi.
Vi propongo allora alcune pagine da sfogliare; pagine che danno voce a una riflessione teologico-pastorale disponibile e dedicata a tutti coloro che svolgono un servizio diocesano negli ambiti della comunicazione.
Sono convinto che, per la Chiesa, la svolta comunicativa sia fortemente connessa a quell'intuizione dei professori Filippo Ceretti e Massimiliano Padula che guardano all'umanità come «umanità mediale».

Quale pastorale attivare?

Oggi non si può gestire la comunicazione senza una competenza mediale ed educativa e senza precise strategie. Il contesto attuale obbliga a progettare ogni azione pastorale, soprattutto quella della comunicazione.

Perché anche alla Chiesa serve una cultura digitale?
La «Chiesa mediale» sa bene che strumenti come il sito o la posta elettronica sono figli di una comprensione del web ormai sorpassata. Oggi internet veste le logiche del web 2.0 completamente diverso dal precedente: non più staticità, ma approccio dinamico; non più fruibilità passiva, ma interazione.
Questa è l'era dei social network, attraverso i quali la rete è diventata luogo di condivisione, di interazione e di contenuti creati dagli utenti. Questi permettono di compiere azioni mediali, cioè attivare relazioni reali con persone, creare preziose occasioni per testimoniare la buona notizia, abitare ampi scenari in cui esprimere la bellezza della fede. Le comunità ecclesiali per comunicare in maniera efficace devono assumere una propria culturale digitale.

Essere una comunità social. Si può?

Prima dell'avvento di Facebook, i social media erano strumenti per la gestione di relazioni sviluppate in un mondo virtuale in cui si viveva una «seconda vita»; con Facebook i social sono diventati un'opportunità attraverso cui gli utenti rimediano e rimodellano le loro relazioni reali.
La Chiesa è chiamata ad agire anche qui, proprio perché il web non è un mondo virtuale, parallelo a quello reale, ma «parte della realtà quotidiana di molte persone, frutto dell'interazione umana».
La vera sfida per la Chiesa consiste nel cominciare a essere «meno "comunità virtuale" e sempre più "social network", meno nicchia e sempre più minoranza creativa, meno strumento di trasmissione e sempre più luogo di incontro». Aprirsi a questa «svolta mediale»: abbandonare una modalità di presenza a vetrina per assumere la logica del contatto.
«La rete e la Chiesa sono due realtà destinate a incontrarsi» e le dinamiche pastorali possono – anzi devono – intrecciarsi con gli scenari propri dei social network perché la Chiesa è chiamata a rendersi presente «lì dove l'uomo sviluppa la sua capacità di conoscenza e di relazione». Per tali motivi l'Ufficio diocesano – e non è il solo – dovrà compiere lo sforzo di imparare i linguaggi e le forme di comunicazione digitale per entrare in sintonia con le dinamiche dei social media ed evitare così il rischio di rendere l'evangelizzazione e l'immagine stessa della Chiesa irrilevanti agli occhi di una società dove, sembra, per esserci e agire, occorre possedere anche una chiara identità digitale.

Una pastorale digitale

Siamo di fronte a un'azione che richiede competenza, strategia e non improvvisazione; non basta, infatti, aprire una pagina Facebook (o un qualsiasi profilo social) e riempirla di link, bisogna prima progettare il cosa, il come e il perché della comunicazione. È uno sforzo teologico-pastorale che ogni Ufficio diocesano per le comunicazioni deve incominciare a fare.
In secondo luogo occorre superare la convinzione che i social siano soltanto uno «strumento» per trasmettere informazioni o una sorta di ambone da cui predicare il Vangelo.
Occorre cambiare prospettiva, quindi, perché agire nel digitale non vuol dire compiere una sorta di «potenziamento comunicativo», ma realizzare una vera e propria azione mediale. Pertanto, più che fare «pastorale digitale», la Chiesa è chiamata a realizzare una «pastorale mediale» perché, proprio come l'umanità, anche la Chiesa è mediale.

Alessandro Palermo - @amandil5 -, giovane sacerdote della diocesi di Mazara del Vallo, ha conseguito la licenza in Teologia pastorale della comunicazione presso la Pontificia Università Lateranense. Con il suo blog, Elementi di pastorale digitale, mette in rete diversi contenuti teorici e pratici per l'azione comunicativa nei social media.

 

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