Dieci parole per curare

L’affetto sa che il malato, anche nella condizione terminale, non è solo un corpo irrimediabilmente disfatto, ma è sempre la persona amata; mai un oggetto da spostare, sempre un volto da accarezzare, una mano da stringere, un’anima in cui dimora un principio di vita eterna. In "Dieci parole per curare" le pratiche terapeutiche vengono considerate in relazione al Decalogo biblico con l'obiettivo di rapportarlo alla dimensione e alla pratica della cura «globale» delle persone malate.

«Che cosa posso fare ancora per te, fratello, sorella?». La scienza può definire un limite e decretare: «Non c’è più niente da fare». Una sapiente considerazione della vita può ribadire un’ovvietà: «Tutti prima o poi dobbiamo finire. Tutto ciò che comincia finisce». Una società ben organizzata ed efficiente può offrire servizi: «Non si preoccupi. Pensiamo noi a tutto».
Ma l’affetto continua a domandarsi: «Che cosa posso fare ancora per te, fratello, sorella?». Non si immagina interventi risolutivi, non si illude di ritrovati infallibili, non si rassegna alla consegna di una vita agli ingranaggi di un’organizzazione. Solo non può convincersi all’abbandono, non può lasciare libero corso all’«aggressore» che devasta il fisico e annienta la libertà di una persona amata. C’è nell’affetto una misteriosa forza di ostinazione nel prendersi cura, una radicata persuasione che la persona amata, anche se insidiata dal male invincibile, anche se segnata dalla previsione dell’inevitabile, abbia qualche cosa da dire, abbia un messaggio da consegnare, abbia ancora un’occasione per amare.
L’affetto sa che il malato, anche nella condizione terminale, non è solo un corpo irrimediabilmente disfatto, ma è sempre la persona amata; mai un oggetto da spostare, sempre un volto da accarezzare, una mano da stringere, un’anima in cui dimora un principio di vita eterna.
L’affetto sa. E perciò provoca la scienza, perché non si rassegni alla sua impotenza, ma cerchi, ancora e ancora, non come possa guarire, ma come possa curare. Neppure la scienza è destinata a essere un repertorio di probabilità: anche la scienza può essere una carezza.
E perciò l’affetto provoca l’organizzazione e l’efficienza del sistema, perché non si limitino a predisporre procedure affidabili, del tipo: «Pensiamo noi a tutto», ma piuttosto a offrire luoghi e condizioni perché il «caso» sia persona e il «numero» sia l’irripetibile. Anche l’organizzazione può essere ospitalità. E perciò l’affetto provoca la sapienza e la religione, a patto che non si riducano a proposte di rassegnazione e a proclamazione di princìpi generali, ma siano capaci di dialogo e di presenza, testimoni delle ragioni del cuore e capaci di annunciare l’inesauribile speranza. Anche la sapienza e la religione possono essere presenza amica.
Nella fedeltà al suo ministero, don Gianluigi Peruggia ha percorso con insistenza le domande che sorgono dai tempi ultimi di ogni vita sulla terra. Ha cercato amici e alleati, perché nessuna esplorazione in fase terminale si può compiere da soli. Ha cercato ispirazione nelle Scritture della tradizione biblica, perché crediamo che il nostro Dio non sia una lontananza inaccessibile e quasi un’enigmatica assenza nei tempi ultimi.
In queste pagine offre il frutto delle sue esplorazioni e l’incoraggiamento a pensare, a provocare la scienza, l’organizzazione sociale, la sapienza e la religione e continua a essere voce dell’affetto che si domanda: «Che cosa posso fare ancora per te, fratello, sorella?».

(Mario Delpini, Prefazione, in Dieci parole per curare, di Gianluigi Peruggia, Paoline Editoriale Libri 2022, Milano, p. 7-9)

 


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