Che cosa significa per i nostri ragazzi essere vivi, sentirsi vivi? Per noi educatori è basilare non giungere a facili conclusioni e, ancora di più, è indispensabile non cadere nel pericolo di proiettare su di loro il nostro modo di vedere, i nostri ideali.
È commovente, a questo riguardo, ciò che scrive uno psicoterapeuta dell’adolescenza di lunghissima esperienza, Gustavo Pietropolli Charmet, fondatore dell’Associazione Minotauro, docente universitario, autore di prestigiose pubblicazioni. Nel suo ultimo saggio Adolescenti misteriosi (Mimesis Edizioni, 2024), egli parla del mistero che percepisce ogni volta che si trova a parlare con un adolescente. Tanto più, quando avverte una vicinanza, un’intesa con lui. Sorprendentemente la maggiore vicinanza rende l’educatore ancora più consapevole di come l’adolescente sia mistero a se stesso. Le parole pronunciate da tanti genitori: «Non riconosco più mio figlio» potrebbero essere attribuite allo stesso ragazzo: «Non mi riconosco più. Non so che cosa voglio. Come posso affrontare la vita?».
Il mistero, che l’adolescente percepisce, riguardo alla propria identità e al proprio futuro è alla radice di tanti comportamenti, apparentemente contradditori. Picchi di energia quasi frenetica che si alternano a momenti di inerzia; ragionamenti lucidi e introspettivi, che lasciano spazio ad atteggiamenti superficiali; bisogno di vicinanza e d’intimità, a cui seguono improvvisi ritiri e rifiuti: tutto questo è manifestazione di quella realtà di energia e di vita che è l’adolescente e che ha bisogno del riconoscimento e del rispetto dell’ambiente, per evolversi in un senso di sé coeso.
Pietropolli Charmet ci guida a prendere atto di come siano cambiate le sfide, che l’adolescente di oggi deve affrontare e come esse siano poste, non tanto dalla famiglia, spesso percepita come scarsamente normativa e influente, ma dalla cultura sociale, inglobante e pervasiva, che lo condiziona con le sue ideologie, i suoi miti e le sue mode. Fra questi la competizione totale e spietata, la negazione della morte e del dolore, l’obbligo di dover rispondere a ideali di bellezza e di efficienza, di dover essere performativi a tutti i costi. Questi miti, amplificati dai social, rischiano di diventare l’unica lente attraverso cui il ragazzo vede se stesso, soffocando, così, la sua identità unica, ancora in formazione.
«La spinta a raggiungere livelli elevati di bellezza e visibilità è intransigente e contribuisce ad accendere una competizione seminascosta, che costituisce il clima relazionale di fondo. È cruciale aiutarli a liberarsi dalla sudditanza ai miti della sottocultura sociale, in particolare a quelli legati alla performatività, sia intellettiva (risultati scolastici, test di ammissione all’università) sia fisica (sport e palestra), all’adesione indifferenziata a certi brand e stili di abbigliamento, agli ideali di bellezza ritoccata, digitalmente e non» (Ivi, Edizione del Kindle. Pos. 112 ss.).
Se all’adolescente è mostrato, come obbligatoriamente ammissibile, solo il lato brillante e splendente della vita, ciò comporta che ogni fatica e sofferenza siano segno di debolezza e di sconfitta. Così l’ansia fisiologica è considerata patologica, la timidezza nei rapporti sociali un fallimento dell’educazione familiare e le difficoltà scolastiche, naturali in un cammino di apprendimento, etichettate come DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento).
La società, con i suoi falsi miti, di cui spesso la famiglia è vittima inconsapevole, costruisce labirinti, in cui i ragazzi possono perdersi, perché non esistono criteri di orientamento, né limiti, né specchi in cui riconoscere la propria vera immagine. Oppure si può dar vita a gruppi, guidati da educatori esperti nell’ascolto, che diventino una casa in cui l’adolescente può sviluppare la sua capacità di pensare e iniziare a comporre, con pazienza e amore, le diverse parti del sé. Raccontarsi senza la paura di essere considerati strani, scarsi o perdenti è l’inizio indispensabile per lavorare senza troppa diffidenza alla costruzione della propria identità.
Un’immagine, suggerita dal filosofo tedesco, Martin Heiddeger, può offrire suggestioni alla nostra ricerca. Nella sua opera, Holzwege (Sentieri erranti nella selva, Bompiani 2002), egli descrive quei sentieri che si addentrano nella foresta, apparentemente senza direzione e che sembrano non portare in nessun luogo, perché si perdono nel bosco. Simili a essi sono quelli sui quali gli adolescenti si incamminano, sotto la guida di adulti spaventati e confusi. Eppure a volte gli holzwege giungono a una radura dove penetra la luce (lichtung): è la luce della parola (umana e divina) che illumina l’esistenza e dà sufficiente orientamento per proseguire il cammino.
Il rapporto educativo è il luogo in cui l’adolescente può trovare ed esercitare le parole che illuminano l’oscurità del vissuto e del disagio, e attivare quel processo di simbolizzazione che rende possibile l’elaborazione dell’esperienza, la riflessione su di essa, la sua comunicazione e, quindi, la necessaria verifica.