I ragazzi di oggi vivono in un clima di diffusa violenza. Basta ascoltare le notizie del telegiornale per sentirsi immersi e minacciati da guerre, omicidi, atti di violenza… Il ragazzo percepisce atteggiamenti di minaccia nascosti, spesso, negli ambienti quotidiani: scuola, sport e anche in famiglia. Come può, allora, un adolescente imparare a praticare l’accoglienza?
La sola enunciazione di principi etici, anche altissimi, come quelli evangelici, non è sufficiente. È necessaria un’educazione dell’intera persona, a cui devono contribuire tutte le agenzie educative: famiglia, scuola, sport e comunità parrocchiale.
L’amore per l’altro, che Gesù ci invita a praticare, si basa, dal punto di vista psicologico, sullo sviluppo della sensibilità prosociale, che si concretizza nella disponibilità a relazionarsi con gli altri, ad accogliere le diversità e ad assumere responsabilità e cura nei loro confronti. Tale atteggiamento rappresenta la forma socializzata della fiducia di base, che coinvolge e ingloba, oltre la propria persona, l’altro, il prossimo.
Tale processo è reso possibile dalla maturazione dei dinamismi cognitivi e affettivi dell’intera persona, a cui il messaggio cristiano apre orizzonti di riflessione e di significato valoriale. Il sentimento prosociale diventa la componente psicologica di un’esperienza autenticamente religiosa. Provocato dalla testimonianza di persone di fede, ma anche da una propria intuitiva esperienza del valore degli altri e dell’origine comune di tutti, l’adolescente riconosce che l’altro è voluto e amato da un’entità trascendente che, essendo giustizia e bontà assolute, vuole che tutti vivano e crescano nell’aiuto reciproco. L’impegno altruistico si profila come una strada altamente significativa per la propria realizzazione. In un’ottica cristiana, esso rivela il cammino del discepolo di Gesù che sperimenta Dio come colui che ama ognuno e invita ad amare tutti come lui e assieme a lui.
Per l’intero processo educativo, e, in particolare, per l’educazione etica, riveste grande importanza la persona dell’educatore come modello da imitare. Ma che cosa determina la scelta di un modello? Primo fra tutti il rapporto di calore e di fiducia che si instaura tra l’educatore e l’educando; ha un peso importante anche l’autorevolezza del modello: l’apprezzamento che riceve, il fascino che esercita per le sue doti umane, la capacità di comprendere, ma soprattutto cogliere che quella persona si è realizzata. Perché il ragazzo raggiunga una vera autonomia occorre che passi dall’imitazione esteriore a una convinzione personale e a una originale elaborazione dei valori da applicare alle concrete situazioni di vita. Da qui nasce l’esigenza del confronto e dell’ascolto nel gruppo, per sviluppare un proprio orizzonte di valori, flessibile, aperto alla critica e al dubbio, e giungere a scelte motivate e creative.
Il ragazzo, poi, fa un’esperienza straniante di se stesso: si sente uno sconosciuto in casa propria. L’educazione all’accoglienza deve fare i conti con la paura del diverso, che alberga in ognuno; con l’accettazione di ciò che in noi ci è difficile riconoscere e che ci spaventa; con il bisogno, che può diventare acritico, di sentirsi parte del gruppo e, quindi, nemico di chi è considerato estraneo. Ciò spiega l’influenza dei leader negativi sui soggetti più deboli: questi attaccano il compagno deriso e bullizzato, nel tentativo inconscio di deviare dalla propria persona l’attacco.
Noi educatori dovremmo ricordare che non c’è agire autenticamente umano e, quindi, cristiano, dove non è rispettata la libertà dell’individuo. Da ciò deriva il compito di basare la formazione della coscienza del ragazzo non sulla paura e il senso di colpa, ma sullo sviluppo di modalità prosociali, come l’assertività, l’autocontrollo, l’empatia e il rinforzo dell’io.
In questo contesto Dio è da presentare come colui che vuole la nostra crescita, che ci sollecita ad aprirci alla vita con fantasia e creatività, insegnandoci ad amare con lui e come lui. Egli è, infatti, la fonte dell’amore: si rallegra quando ci apriamo ai bisogni e i desideri dell’altro; anzi ci aiuta a riconoscerli e ad andare loro incontro, e desidera che noi stessi ci riconosciamo come valore.
«Maestro buono, cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» (Mc 10,17). A questa domanda Gesù risponde non additando regole e comportamenti, ma mostrando ciò che rende la vita degna di essere vissuta: la relazione con Dio e con gli altri. L’adolescente di oggi, inserito in una società liquida, ha bisogno, per conservare la fede e la speranza nel futuro, di sperimentare legami buoni e solidi e di sapere che essi trovano la loro garanzia nella fedeltà di Dio e di riconoscersi in grado di svilupparli, perché il suo cuore è vivificato dallo Spirito. In quest’ottica l’educazione etica perde la patina grigia e costrittiva del «tu devi», per trasformarsi nella scoperta liberante del «tu puoi», e si apre a ciò che gli antichi greci definivano kalòs kai agathòs, il buono è compagno del bello. Educare un bambino, un adolescente a riconoscere la bellezza in lui e intorno a lui significa orientarlo alla cura della vita nelle sue diverse forme. L’educazione etica è educazione alla bellezza, perché scaturisce dalla meraviglia e dalla gratitudine per il dono di Dio che ci rende capaci di far fiorire ‒ in una mutualità responsabile ‒ la vita di quel giardino in cui il Creatore ‒ per principio ‒ e non solo, in principio, ha posto l’uomo.