Sanno bene le mamme quando, a un tratto, il figlio «coccolone» si sottrae, vergognoso, alle effusioni e ai baci: «Fammi scendere qui. Non baciarmi davanti ai miei compagni. Mi prendono in giro!». Oppure «la bambina di papà» che evita, infastidita, qualsiasi contatto fisico. Che cosa sta accadendo? Il proprio corpo diventa "mio", una proprietà privata da difendere gelosamente.
Per quanto possa essere disturbante per i genitori, il figlio adolescente sta realizzando il suo necessario processo di autonomia, che si esprime anche attraverso il bisogno di separatezza fisica. D’altra parte le lamentele: «Non starmi addosso»; «Non starmi sul collo» di tanti figli adolescenti, riferite all’atteggiamento dei genitori, mostrano come fisico e psichico siano modi di sentire correlati, spesso confusi tra loro. Ma si può vivere senza contatto?
Sappiamo bene che non si può. La modalità, però, cambia per adeguarsi ai bisogni evolutivi dell’adolescente.
Un vecchio proverbio insegna: «Ho bisogno che tu mi tocchi, per sentirmi vivo». Ed è proprio così: «Il tatto, la prima sensorialità che si sviluppa nel corpo della mamma, costituisce una sorta di pietra angolare dell’esperienza e della comunicazione umana. La pelle ci contiene, crea il nostro confine, ma è insieme uno dei più potenti veicoli per il mondo esterno, per ricevere sensazioni piacevoli e dolorose, per comunicarle e manifestare affetti: la pelle, infatti, è dotata di recettori tattili. Data l’importanza della pelle per la sopravvivenza, è il primo organo di senso a raggiungere la maturazione. A una maturazione così precoce corrisponde anche un ambiente ideale per la stimolazione tattile: il liquido amniotico rappresenta una costante delicata stimolazione, alla quale si affianca quella ingenerata dalla madre con i suoi movimenti, i cambiamenti di posizione, la pressione volontaria e le contrazioni uterine» (P. Manfredi - A. Imbasciati, Il feto ci ascolta… e impara, Borla, Roma 2012, pp. 20-21).
Il neonato vive se viene toccato, stretto, tenuto in braccio. Lo psicoanalista Renè Spitz, riporta nel suo saggio, Il primo anno di vita del bambino, l’impressionante racconto di neonati che non sono riusciti a sopravvivere alla mancanza di contatti, carezze, abbracci.
Per lo psichiatra e filosofo Eugène Minkowski (1999), il toccare è «un miracolo». E il con-tatto si appoggia all’organo di senso più primitivo: al tatto, cioè a quella forma sensoriale che quando fa ingresso nella nostra vita cambia il volto del mondo nel suo insieme. Attraverso il tatto, i fenomeni esterni acquisiscono consistenza, coesione e forma, e le cose cominciano a «stare insieme». E noi stessi possiamo «trovare un sostegno» nel mondo, possiamo «toccare terra».
È sempre grazie al tatto che nasce tutto ciò che è palpabile e consistente, così come nasce il senso del contatto immediato fra gli esseri umani. Il tatto serve, infatti, da base a tutti gli altri sensi, non solo perché è biologicamente precedente agli altri, ma perché, in senso fenomenologico, come sostiene Minkowski, ha in sé qualcosa di basale, essendo necessario per introdurre la consistenza nel mondo e per rendere, così, più compiuta ogni altra qualità sensoriale. Il tatto, però, non è solo base, è anche toccare ed è reciprocità. C’è qualcosa di tattile, in effetti, in ogni percezione e ciò che distingue la percezione dalle altre funzioni mentali (pensiero, astrazione, immaginazione) è il fatto che ci fa «toccare terra», ci fa «toccare con mano» tutto quanto sostanzia il mondo e lo rende percepibile.
Il contatto può avere diverse modalità e, soprattutto, non deve essere forzato e intrusivo, ma una risposta adeguata al bisogno dell’altro. Se l’adulto, educatore o genitore, impara a riconoscere nei cambiamenti dell’adolescente i suoi bisogni evolutivi, saprà rispettare le strade su cui camminare per incontrarlo. Forse non sarà la coccola dell’infanzia, ma la pacca sulla spalla, lo sguardo, l’ascolto attento dei suoi pensieri e dei suoi progetti. Imparerà a uscire dai suoi schemi, riconoscendo, ad esempio, che per l’adolescente il contatto digitale è reale. Proprio il bisogno di contatto spinge il preadolescente/adolescente ad essere sempre connesso.
I contatti instaurati in rete gli permettono di esporsi solo in parte, diminuendo il rischio di essere rifiutato, come egli teme possa accadere con un gruppo di nuovi amici. Protetto dall’anonimato, può dare voce al suo bisogno di visibilità.
L’adolescente ha bisogno di allontanarsi, ma può farlo solo se sa di poter tornare. È la consapevolezza di avere una base sicura, un porto sempre accessibile, a permettergli di affrontare il nuovo e l’incerto. Un cenno, una carezza, un bacio possono diventare i segni tangibili di questa certezza.