Molti sono i meriti della lettera enciclica di Papa Francesco, "Laudato si'", ma sicuramente uno tra i più indiscussi è l'averci aiutato a ricollocare il tema della custodia della terra nell'ambito di una «ecologia integrale», che non si limita a individuare l'aspetto strettamente ecologico, ma pone questioni irrinunciabili alla coscienza dell'uomo contemporaneo.
Parlare di «ecologia integrale», infatti, significa porsi di fronte al problema ecologico per affrontarlo non come fosse cosa a se stante, ma come sintomo di un malessere generalizzato di cui l'uomo è allo stesso tempo vittima e colpevole.
Il Papa ci spinge a riconoscere come sia sempre più urgente recuperare la capacità di leggere l'esistente mediante «categorie che trascendono il linguaggio delle scienze esatte o della biologia e ci collegano con l'essenza dell'umano» Laudato si' 11 (LS). Le scienze e la tecnica, vanno cioè coniugate con la cultura, la politica e la spiritualità, di cui – almeno, in senso lato, è dotato ogni essere umano – affinché non finiscano tragicamente appannaggio di un sistema economico escludente e genocida, come già sta avvenendo, ma possano servire a uno sviluppo armonico, sostenibile e integrale, orientato quindi al bene comune (LS 18).
Così facendo, Francesco rende davvero merito al suo protettore, quel credente di Assisi che, agli inizi del 1200, si sentiva «fratello» e non padrone di tutte le creature; che scelse di essere povero non per un'assurda idealizzazione della povertà, ma per solidarizzare con gli esclusi dal sistema ad imitazione di Cristo; che contemplava non semplicemente la natura bensì il «creato», riconoscendovi l'impronta e la presenza del Creatore. Nell'autentica spiritualità francescana si trovavano pertanto, perfettamente integrati, l'uso responsabile delle risorse, la consapevolezza della priorità del bene comune rispetto alla proprietà privata e ad altri interessi di parte, una denuncia tanto profetica quanto non-violenta dell'ingiustizia sociale e una spiritualità tanto cristallina che, da secoli, fa del poverello di Assisi, un santo credibile e «simpatico» anche a molti non credenti.
Ed è questo che, precisamente, Papa Francesco ha voluto dirci con la sua ultima enciclica: avendo esagerato nella, pur legittima e necessaria, separazione tra le varie discipline abbiamo perso di vista l'insieme (LS 110), ovvero la sostanziale omogeneità e unità del genere umano, e di questo con la natura di cui siamo parte (san Paolo direbbe che «siamo membra gli uni degli altri» Rm 12,5). E, avendo elevato la logica del profitto a valore assoluto, siamo finiti per esserne dominati.
Papa Francesco è chiaro: urge una vera e propria conversione. «Se "i deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi", la crisi ecologica è un appello a una profonda conversione interiore» (LS 217), ma il tempo è quasi scaduto perché, a differenza di Dio, la natura non perdona. Del resto l'ecologia umana (LS 152) mostra segni di cedimento ancora più pericolosi e imminenti di quelli già tanto precari della natura. Allora che fare? Da dove iniziare? Esistono «segni» che indichino inequivocabilmente dove è più fragile quell'insieme vitale che chiamiamo «terra» e comprende tanto noi umani quanto i nostri «fratelli» delle altre specie animali e vegetali? Esistono «segni» capaci di denunciare palesemente l'ingiustizia del sistema e obbligarci a riconoscere le vittime come tali, spingendo ogni coscienza, credente e no, ad assumersi le proprie responsabilità?
Non vi è dubbio che se il santo papa Giovanni XXIII scrivesse oggi quel capolavoro epocale che fu l'Enciclica «Pacem in terris» indicherebbe tra gli odierni «segni dei tempi» il fenomeno delle migrazioni o, per meglio dire, i migranti in carne e ossa, con i loro volti e le loro storie. Proprio i «quattro pilastri» della Pacem in terris (Verità, Giustizia, Carità e Libertà) potrebbero allora costituire un ottimo strumento di analisi e intervento per realizzare quella trasformazione improcrastinabile che papa Francesco sollecita. Papa Giovanni, infatti, ci invitava anzitutto a fare «Verità», ovvero ad analizzare quanto succede in modo intellettualmente onesto e disinteressato. Ebbene, oggi più che mai, siamo in presenza di un fenomeno epocale: centinaia di miglia di persone fuggono dai loro paesi per cercare salvezza. Da cosa scappano? Essenzialmente da due cose: da conflitti e violenze d'ogni genere e da situazioni di povertà che uccidono non meno della guerra. Posto però che nemmeno i più cinici tra i commentatori che ogni giorno invadono i media si spingerebbero a dirsi indifferenti di fronte a tante tragedie, è davvero possibile fare qualcosa? Indiscutibilmente sì.
La guerra è un fenomeno umano e la terra è ancora in grado di produrre per una popolazione mondiale sette volte superiore all'attuale. Il problema va allora identificato nello squilibrio generalizzato in termini di libertà, sovranità popolare, giustizia sociale e deficit dei beni essenziali (cibo, sanità, istruzione), causato da una malvagia distribuzione delle risorse.
Nel caso dei conflitti va, quindi e anzitutto, limitata drasticamente la produzione e la vendita delle armi; mentre contro l'impoverimento dell'85% dell'umanità va necessariamente abbandonato un modello finanziario che prevede «legalmente» pratiche come il latifondo a monocultura, in mano a imprese transnazionali che sostanzialmente non rispondono a nessuno, l'alterazione del mercato da parte degli Stati con la pratica del dumping, l'avvelenamento del suolo e il relativo sfollamento delle popolazioni, provocato dalle miniere o dalle dighe idroelettriche... (Cfr. LS 23-26). Certo, questo significa ripensare, o meglio, «rivoluzionare» l'intero sistema, ma davvero non c'è alternativa!
Se, infatti, solo l'Italia nel corso del 2013 ha venduto armi ai paesi, in guerra, del Nord Africa per 30 milioni di euro - pistole, fucili, carabine e simili (fonte: sito disarmo.org) - non possiamo poi lamentarci che arrivino i profughi. Se le imprese (e i relativi Stati) del cosiddetto «primo mondo» continuano a prosperare sulla pelle del resto dell'umanità, quelli che comunemente vengono definiti i «migranti economici», anziché essere sempre più criminalizzati dai nostri governi – in un maldestro tentativo di distinguere tra migranti «buoni» (i profughi) e migranti «cattivi» (gli altri), per avere una pretestuosa giustificazione ad accoglierne solo una parte – andrebbero suddivisi in proporzione agli interessi economici che ogni nazione ha nei loro paesi di provenienza.
Per quanto però il sistema vigente si definisca «liberista», per esperienza sappiamo come non rispetti affatto la «libertà» altrui e, certo, non sarà questa la strada per costruire una solidarietà davvero sostenibile (Carità). Del resto, se pure crediamo ai miracoli, non ci illudiamo che il sistema imperante sia consanguineo al lupo di Gubbio, quanto piuttosto al drago dell'Apocalisse. Non possiamo cioè sperare che la conversione-rivoluzione auspicata Papa Francesco cali dall'alto. L'unica via praticabile è piuttosto una coscientizzazione dell'opinione pubblica, che parta dalla «conversione» personale e sfoci in un movimento di pressione dal basso, capace di obbligare le classi dirigenti, politiche ed economiche, ad assumere atteggiamenti diversi nei confronti della terra e quanto contiene.
Solo questo ci garantirà la pace.
Alberto Vitali, sacerdote della diocesi di Milano dal 1988. Dopo due esperienze di pastorale giovanile, dal 1999 ha rivestito diversi incarichi in Pax Christi Italia. Attualmente è responsabile dell'Ufficio per la pastorale dei migranti dell'Arcidiocesi di Milano e Parroco della Parrocchia personale dei Migranti "S. Stefano Maggiore". È membro del Consiglio internazionale dei Comitati «Oscar Romero» (Sicsal) e segretario del Centro Studi Economico-Sociali per la Pace. Con Paoline ha pubblicato: Oscar A. Romero. Pastore di agnelli e lupi (2010); Gesù. Il messia della pace (2012); Luigi Bettazzi. Il progetto e l'azione di un costruttore di pace (2013).