"Ribellarsi alla Notte" è il secondo romanzo di Mimmo Muolo dedicato al Natale, cito il primo altrettanto bello, altrettanto intenso e coinvolgente, "Per un’altra strada", che narra l’epica avventura del quarto magio, Artaban, che per una strada diversa, altra rispetto a quella intrapresa da Melchiorre, Baldassarre e Gaspare, giunge ugualmente alla mangiatoia. Entrambi presentano differenti porte d’accesso ai mondi che dischiudono. E al Natale.
Classici natalizi come la novella di Grazia Deledda Il dono di Natale, o il più celebre Canto di Natale di Charles Dickens narrano perlopiù l’attesa. Di un dono, di una rinascita, di una luce, di un mutamento che ha luogo, prima che nell’abitazione del reale, in quella dell’immaginazione. Si potrebbe quasi affermare che il Natale è innanzitutto festa dell’immaginazione. Si immagina il nuovo: nuovi mondi, nuovi noi, nuovi significati. Secondo Gianni Rodari l’immaginare di oggi crea l’abitare di domani.
Ma Ribellarsi alla Notte, in controtendenza, è un racconto sulla sparizione. Sulle sparizioni. Che, nell’abile gioco di specchi di un’illusionista, danno avvio alla magia del giallo. Partendo dalla fatidica domanda: Chi è stato? Chi è stato a rapire Gesù Bambino?
Non è solo sparito il Bambinello dal presepe, ma sono spariti i simboli che quel Bambinello porta cuciti sulla pelle nuda: e il principale è proprio l’immaginazione, la reinvenzione di un dono che di nuovo appare nuovo.
Ecco che allora il personaggio chiave per ritrovare la statuetta di Gesù Bambino non può che essere un bambino, Antonio, dotato di uno sguardo sul mondo talmente fantasioso da riuscire a immaginare il labiale delle persone che vede dalla finestra. Antonio vede con l’immaginazione parole senza voce. E in qualche modo è proprio lui il moderno e stralunato Gesù bambino che indaga sulla sparizione di se stesso e dell’infanzia, quasi ladro di se stesso. Antonio non è un bambino ideale, bensì un bambino reale, alieno da una rappresentazione buonista e stereotipata. È iperattivo, litigioso, malato.
Poi vi è un altro personaggio chiave, l’agente Gargiulo, che l’ispettore Mariotti si vede costretto a ingaggiare per la risoluzione del caso, formidabile perdente della letteratura, perché le sue parole la voce ce l’hanno, ma inceppate dalla balbulzie.
E allora il giallo che fin qui accompagna il lettore si muta in un altro giallo, in una vertiginosa costruzione metanarrativa, che indaga su una seconda sparizione. Quella del linguaggio stesso.
Una contemporaneità fragorosa, frastornante, dannata a una logorrea che trova nel monologo la sua forma prediletta d’espressione e non nel dialogo, dove le notizie rimbalzano su Sky, Tgcom24, sui social, una società mediatica dove tutto è linguaggio e dunque niente lo è più, che ha sostituito la teologia della parola con la tecnologia della parola.
Eppure l’autore affida la risoluzione del mistero a una parola inceppata e a una parola senza voce, tradotta dal piccolo Antonio su labbra ignote, decifrata nel silenzio dei corpi. Viene rubato dunque, insieme a Gesù bambino, il linguaggio, o meglio un linguaggio vecchio che dovrà essere sostituito da un linguaggio nuovo. Forse la lingua della Chiesa, forse quella della letteratura?
Secondo Camus la letteratura dà voce a chi non ha voce. E cos’hanno in comune letteratura e cristinaesimo? Sono due scandali, due rivoluzioni non delle armi ma dello sguardo. Lo sguardo degli scrittori non si posa solo su chi non ha voce ma anche sulle parti di noi che non hanno voce, e guarisce vergogne, infermità, meschinità, non togliendole o fingendo che non esistano, ma guardandole in faccia, rendendole protagoniste di una domanda di senso. Non di una risposta... Come Cristo guarda l’umano dolore, anche la buona letteratura lo fa, e lo prende a pugni, come in questo romanzo fa Mimmo Muolo. Se sparisce il Bambinello, se sparisce il senso della nascita, sparisce anche la croce, il senso della morte, con il significato esistenziale che porta inchiodato. Siamo un contemporaneo che non sa più morire, siamo diventati disabili alla morte.
E poi c’è la sparizione della vocazione, con cui è alle prese Don Eugenio, moderno Don Abbondio, recintato nella comfort zone delle sue abitudini, che per colazione non può resistere a una sfogliatella calda e a cui la giacca a vento imbottita regala un fisico da omino Michelin. Un sacerdote bonario e ordinario che si disperde nell’umanità di un quartiere romano, di cui esprime il vissuto medio-borghese.
Don Eugenio è alle prese con i battesimi sempre più rari e con i funerali che aumentano.
Con la mancanza di Dio che, come nella pregnante frase di Heidegger che ha scelto come esergo, non viene avvertita come mancanza.
Con una modernità prosaica e autentica che investe anche i luoghi: il palcoscenico del presepe che contiene Gesù Bambino dove si consuma la sparizione, il quartiere che contiene il presepe, la città che contiene il quartiere, con il “velo dell’anonimato” che si stende sui palazzi.
«E in fondo hanno finito per assomigliarsi, lui e quell’angolo di città né centro né periferia».
C’è la sparizione di Roma. Non più caput mundi, ma metropoli inedita «senza storia e senza gloria. Potrebbe anzi essere una qualsiasi piazza di un qualsiasi altro posto in Italia e nel mondo».
Roma è un luogo che ha smarrito la propria identità e che potrebbe essere tutti i luoghi. Roma è un luogo comune e non più un luogo comunitario, di storia, tradizione, religione. Una “scatola di numeri”, quelli dei prezzi e delle offerte speciali.
Si percepisce in questi passaggi la critica sociale, affidata oggi al giallo e al noir, unici generi narrativi forse che «scendono in strada», prendendo a prestito le parole di Maurizio De Giovanni.
Ribellarsi alla notte si configura tuttavia come giallo postmoderno, poiché se il Novecento ha frammentato l’Io e i luoghi che lo contengono, qui sparisce del tutto. Come di notte spariscono i corpi e il mondo di ombre che credevano di vedere durante il giorno.
E allora cosa resta?
La meraviglia.
Ribellarsi alla notte è un racconto sulle sparizioni e sulla meraviglia. Antonio, Andrea, Gargiulo, Don Eugenio sono creature spaesate come il Marcovaldo di Calvino, che camminano in un contesto urbano profondamente mutato che li cammina, li mastica, malinconici e buffi, comici, inadatti. E per definire la lingua di questo romanzo, mossa, dall’estensione vocale e di registro ampia come una partitura musicale, ora cruda e intinta di grottesco, ora intima come un adagio, non trovo parole migliori che quelle dello stesso Calvino, che nelle Lezioni americane scrive: «Come la melanconia è la tristezza diventata leggera, così lo humor è il comico che ha perso la pesantezza corporea».
Grazie alla figura di un ultimo personaggio chiave, la sorella del sacerdote che non per niente si chiama Maria, il cui brodo è un’altra “meraviglia”, dunque grazie a una donna, a un femminile cui forse è affidata la redenzione, che forse può aiutare Dio come tragicamente si proponeva Etty Hillesum, Ribellarsi alla notte si ascrive alla letteratura della speranza, manzoniana, negletta in Italia e possente altrove. Non una letteratura del lieto fine, ma del lieto inizio. Perché, e concludo con le parole del curato di campagna di George Bernanos, mentre sta morendo in una casa di peccato, «Che importa? Tutto è grazia».
Nicoletta Bortolotti
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