SELFIE: metterci la faccia

Le 10 parole della comunicazione /8

Scattarsi "selfie" con gli amici, davanti ai monumenti o in occasione di eventi particolari è divenuta una vera e propria mania collettiva: da cosa nasce questo bisogno di scatti fatti a se stessi e cosa ci può insegnare?

 

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1. La parola alla parola

Selfie: tecnicamente, parola composta da self e dal suffisso ie o, più raramente y. La parola rimanda, a livello etimologico e semantico, a qualcosa che ha a che fare con se stessi: un'autoproduzione, un qualcosa fatto da soli e senza il bisogno di coinvolgere altri... Almeno apparentemente.
Nell'uso comune significa: scatto fatto da se stessi.
Linguisticamente è un prestito dall'inglese, e diffusosi in Italia quasi in contemporanea. Stando alle notizie fornite dall'Accademia della Crusca, la parola Selfie è apparsa per la prima volta nel linguaggio inglese tra il 2000 e il 2002, e fu usato più frequentemente dopo il 2005 soprattutto dai frequentatori di alcuni ambienti digitali che avevano a che fare con la fotografia.
È pero solo nel 2013 che viene effettivamente riconosciuto come neologismo e decretato parola dell'anno dagli Oxford Dictionaries. Come uso del termine si è diffuso, come dicevamo, quasi in parallelo, anche in Italia; e questo è indice del carattere permeante e globale delle lingue del web e dei social network.
Dire selfie, oggi, è riferirsi indubbiamente a una foto fatta da soli attraverso la telecamera frontale del proprio smartphone, Iphone o simili device. Lo si può fare allungando il proprio braccio o servendosi delle ormai popolarissime stecche. La selfie-mania popola i social network e spopola in rete, e non è più rappresentativa di una sola fascia di popolazione – i teeneger –; potremmo dire, e non esagerando, che è diventata uno stile di esistenza per molti di coloro che hanno tra le mani uno smartphone, qualsiasi sia la loro età.


Le 10 parole22. La parola della rete 

Per capire cos’è un selfie e quale sia la sua ricaduta è sufficiente scorrere la home di qualsiasi social network. Fare un selfie e condividerlo è in fondo uno dei modi più diffusi per entrare in rete, e per alcuni – quasi per tutti in verità – è l’unico modo per essere realmente connessi con gli altri. Di selfie ne esistono centinaia di tipologie, alcune belle e coinvolgenti, altre un po’ inquietanti. Chi fa un selfie lo fa per condividerlo con i propri «amici» sui social. Ed è per questo che a buon diritto possiamo considerare un selfie condiviso una sorta di porta aperta sulla propria vita, attraverso cui far entrare gli altri, spesso con scarsissimi livelli di protezione della privacy.

Apriamo il nostro social preferito e dalla home proviamo a scoprire quali selfie ci scorrono davanti: ci sono alcuni amici da soli vicino a monumenti importanti; altri sono in gruppo; molti sono sorridenti, ma qualcuno è alle prese con buffe mimiche. Alcuni sono miei amici reali, altri sono personaggi famosi di cui sono fan. Qualcuno, in piazza san Pietro, è riuscito a strappare un selfie all’ormai mitico papa Francesco; qualcun altro ne ha appena pubblicati una serie, radunandoli in un intero album: è da solo, credo nella propria camera e seduto; cambia però la posizione della testa e delle labbra e le sue mimiche facciali da caricatura… della serie: cose da fare pur di non cedere alla noia. Il popolo degli web-amici, o di altri navigatori altrettanto annoiati da un pomeriggio di solitudine, inizia a cliccare e commentare. Inutile dilungarmi: è a solita vita da social… una vita spesso tutt’altro che creativa ed entusiasmante, ma pur sempre una vita connessa e quindi vista e condivisa.

Questi però non sono i soli selfie possibili. La rete, soprattutto nei gruppi privati o attraverso programmi di messaggistica istantanea, ne fa girare anche altre tipologie; apparentemente più privati, ma in realtà di privato c’è solo il luogo in cui vengono scattati. Sono quegli scatti fatti a parti del proprio corpo che dovremmo essere capaci di custodire più che di mettere in piazza. E certamente non mi riferisco alle labbra. Penso a parti più intime i cui scatti sono spesso motivati e causati da atti di bullismo o cyberbullismo. Ed è questo a essere ancora più inquietante.

 

Le 10 parole 343. La parola e la vita

C'è una domanda che dovremmo tutti farci, almeno una volta: i selfie da cosa nascono e cosa ci stanno insegnando?

Un selfie ha molto a che fare con l'immediatezza, la presenza, le emozioni, le connessioni con gli altri, siano essi vicini o lontani da noi, conosciuti o meno. Un selfie è la prova inconfutabile (almeno secondo alcuni) della «mia presenza» in un luogo e con determinate persone. Se il selfie è particolarmente interessante può far schizzare la mia pagina social, i like si moltiplicano e la mia foto può diventare virale. Un selfie può far parlare di me, interessare anche a chi di solito mi ignora; un selfie può rendermi meno invisibile, può finalmente costringere tutti a vedermi.

Può sembrare strano, ma queste sono le idee che spesso popolano i pensieri di chi usa la comunicazione digitale come strategia di esistenza, con tutto ciò che comporta. Un selfie, banale dirlo, ha poco di inconscio e di istintivo: chi lo fa, vuole condividere qualcosa, e sceglie cosa condividere. Peccato però che, spesso, facendolo, a perderci siamo noi stessi. Pensate a chi sceglie di non vivere la forte emozione che può derivare da un incontro, atteso e magari anche fugace, perché a uno sguardo che potrebbe cambiare la vita, o una carezza raccolta in modo imprevisto si preferisce tenersi a quella giusta distanza per auto-immortalarsi in quel momento. Indubbiamente dopo ci sarà una foto da condividere, ma certamente non ci sarà un'esperienza da ricordare. Che fare allora?
Beh, pensare potrebbe essere una bella soluzione. Scegliere di non vivere in funzione della propria bacheca social non ci rende meno social, non ci estranea dal mondo, ma ci connette in modo forse meno estemporaneo e decisamente più forte.

I selfie sono una straordinaria porta da aprire per condividere porzioni della nostra vita con gli amici, ma non sono la nostra vita, non la possono ridurre, non la possono esaurire. «Noi siamo molto di più!», ce lo dobbiamo dire costantemente. «Io sono molto di più di quel selfie fatto sotto il palco di Ligabue»; «Il mio corpo è molto di più di quel seno fotografato e fatto girare dai miei compagni di classe via whatsapp», «Sono molto di più di quelle labbra strette e volgari». «Io non sono i miei selfie! Io sarò ciò che da ogni esperienza riuscirò a imparare e a rielaborare nella vita»... Se riuscirò a dirmi tutto questo e a esserne convinta, sia a 15 anni sia a 60, ogni mio selfie sarà davvero un bel modo di connettermi con il mondo e non semplicemente un bisogno inconscio a cui consentirò di legare la mia vita.

 

paoline pgv dieci parole icone24. Una Parola di vita

Dicono che dietro alla voglia di auto-scattarsi una foto in situazioni speciali ci sia una bella dose di bisogno di stima, auto-stima, voglia di esistere. A questo proposito, allora, mi viene in mente una bella pagina di Bibbia. A parlare è Dio, e lo fa attraverso le parole del profeta Isaia. Lo fa per un popolo stanco di combattere, colpito da sofferenze e sconfitte, alle prese con ciò che noi oggi potremmo definire sconforto, delusione, disperazione, senso di abbandono e solitudine.
Lo fa anche per noi.
Oggi, il nostro Creatore ci dice: «Ti ho plasmato, non temere, tu sei mio, mi appartieni» (cfr. Is 43,1ss). Non abbiamo bisogno di qualcosa che ci faccia esistere e apparire agli occhi di chi non ci ama, di chi non ci considera se non in forza di un che di straordinario. Noi siamo nati speciali, siamo preziosi per il fatto stesso di esistere e a nulla, neppure a un like, possiamo permettere di scalfire questa verità. Quando la vita si fa difficile e all'orizzonte ci sono fiumi da attraversare e fiamme attraverso cui passare, colui che ci ha creato, continua a custodirci e a prendersi cura di noi, a vegliare su ogni nostro passo. Riusciremo a ricordarlo?
Per tutti noi un impegno: ogni volta che stiamo per scattarci un selfie dobbiamo ripeterci: «Io sono prezioso, sono degno di stima, c'è chi mi ama!». Dio, da parte sua continuerà e dircelo.

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Rubrica a cura di Paoline PGV

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