Amare gli altri per amare se stessi

XXX Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - 2017

Cosa significa veramente amare? Perchè Gesù riassume tutta la legge nei comandamenti dell'amore? In questa XXX domenica del tempo ordinario la liturgia ci invita a riscoprire il fondamento della nostra vita e della nostra fede. 

"Amerai il tuo prossimo come te stesso", è simile al primo comandamento: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente", afferma Gesù, per poi concludere: "Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». Noi possiamo dire: "Da questi due comandamenti dipende tutto il vangelo".

Chissà quante volte abbiamo meditato queste parole. Facciamo bene a continuare a farlo per non dimenticarle mai. Spesso, però, ci fermiamo su: "ama il prossimo tuo", trascurando il termine di paragone: "come te stesso". Così amare il prossimo rischia di apparire come un ordine, un comando al quale sottoporsi, un peso da portare con fatica, soprattutto quando questo amore ci richiede non un generico "vogliamoci bene", ma un impegno serio e faticoso, come quello declinato dal brano dell'Esodo, che sembra scritto stamattina: "Non molesterai il forestiero né lo opprimerai". Pensiamo al fenomeno del caporalato. "Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all'indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse". Pensiamo al tristissimo fenomeno dell'usura. "Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta". Pensiamo agli operai lasciati senza stipendio, o con lo stipendio consegnato con mesi di ritardo.

Se pensiamo, invece, che il comandamento dell'amore del prossimo è il modo migliore e forse unico per amare se stessi, la difficoltà di amare gli altri non diminuisce, ma cambia l'atteggiamento nei suoi confronti, trasformandosi in positivo. Può sembrare un paradosso, ma è così. Ci vengono in aiuto sia le scienze umane che il buon senso e l'esperienza personale. La psicologia dopo molti secoli ha scoperto che una persona per crescere e diventare adulta e realizzata, cioè per volersi bene, deve aprirsi agli altri, rompendo la prigione dell'egocentrismo infantile e delle scelte egoistiche. Esattamente ciò che ci dicono il buon senso e la nostra esperienza personale. Chi vorrebbe accanto sé come amico, come parente, come collaboratore la persona centrata su se stessa, che pensa soltanto ai suoi interessi, che si nega a ogni collaborazione e attenzione se non vi ricava un vantaggio personale? Chi ha detto che l'inferno sono gli altri ha dimenticato di specificare che infernali sono gli altri che pensano soltanto a se stessi.

La pochezza, però, delle persone che si negano agli altri, oltre che dalla grettezza delle proprie scelte, nasce dalla incapacità di comprendere ciò che dà fondamento alla vita. Viene necessariamente in mente il ricco stolto della parabola evangelica che, già ricco, di fronte a un raccolto eccezionale non riesce a pensare ad altro che a se stesso: "Costruirò nuovi e più grandi magazzini e dirò: "Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia" (Lc 12,19). Invece...

A parte la psicologia e l'esperienza vissuta, ciò che più conta è che non amare il prossimo comporta inevitabilmente disattendere il primo comandamento, perché non condividere i propri beni con il prossimo significa fondare la propria vita su se stesso e sui propri "magazzini", e non su Dio, suo unico e vero fondamento. Amare Dio, infatti, non consiste nel chiamarlo "Signore", ma nel riconoscere in lui la roccia della nostra esistenza, perché origine, fondamento, traguardo della stessa, senza la quale è come una casa fondata sulla sabbia (Mt 6,26). Lo sa bene il salmista che ci invita a pregare con lui: "Ti amo, Signore, mia forza, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore. Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio; mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo".

Non dimentichiamo mai che il Signore non ci chiede mai niente che non corrisponda al nostro vero bene. Questa consapevolezza dà grande serenità e generosità alla nostra fede e al nostro rapporto filiale con lui, perché ce lo fa accogliere non come un padrone, ma un padre.


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