Chi è il fariseo e chi è il pubblicano?

XXX Domenica del Tempo Ordinario - Anno C - 2016

In questa XXX domenica del tempo ordinario, Gesù narra ai suoi ascoltatori la parabola di due personaggi che salgono al tempio a pregare. Cosa succede se, invece di meditare questo testo come singoli, lo leggiamo come popolo di Dio?

Il fariseo e il pubblicano. Chissà quante volte abbiamo meditato su questa straordinaria parabola. Bene! Dobbiamo tenerla sempre davanti a gli occhi, stando attenti, però, a non metterci frettolosamente nella parte del pubblicano, contro quel presuntuoso del fariseo, perché così facendo, diventiamo esattamente come lui. Condannando, infatti, il fariseo, scambiamo i personaggi: noi ci mettiamo in piedi davanti a Dio, dichiarando di non essere come il fariseo. Se così fosse, saremmo noi a essere umiliati, per esserci esaltati. Il posto giusto per noi è fermarci a distanza, con gli occhi bassi, battendoci il petto e pregando: "O Dio, abbi pietà di me peccatore". Come cristiani singoli questo deve essere sempre il nostro atteggiamento, se vogliamo essere "giustificati".

Il momento storico che stiamo attraversando, sia come società civile, che come Chiesa, ci stimola, però, a meditare la parabola non soltanto come cristiani singoli, ma come popolo di Dio. Proviamo a leggerla così: "Due gruppi di persone si recano davanti a Dio per pregare: il primo è composto da cristiani praticanti o che comunque si dichiarano cristiani, il secondo è composto da profughi fuggiti dalla guerra, o dalla fame, o semplicemente spinti dall'illusione di trovare qui una vita migliore. Il gruppo dei cristiani ringrazia Dio di non essere come "gli altri", disturbatori da rispedire a casa loro; oppure è d'accordo con papa Francesco che continua a gridare al mondo: "I rifugiati sono persone come tutti, ma alle quali la guerra ha tolto casa, lavoro, parenti, amici"; che sono ipocriti "tutti quelli che vogliono difendere il cristianesimo e sono contro i rifugiati e le altre religioni"; che "è ipocrita chi difende Gesù e vuole cacciare i rifugiati"?

Letta così, la parabola di Gesù diventa fastidiosa e irritante. Proprio come era agli orecchi dei farisei del suo tempo. Deve essere così per evitare il rischio che anche i cristiani praticanti si lascino irretire dalla cultura dello scarto, una mentalità che - dice papa Francesco - che, predicata da politici e trasmissioni televisive, sta diventando comune; che crea "vittime proprio tra gli esseri umani più deboli e fragili"; che spinge a costruire muri o barriere di filo spianato.

Questo non vuol dire che il problema dei profughi non crei grandi preoccupazioni. Non vuol dire nemmeno che non sia giusto criticare modalità di accoglienza sbagliate, approssimative, o addirittura trasformate in occasioni di malaffare e di arricchimenti illeciti. Noi cristiani, però, non possiamo presentarci a pregare davanti a Dio dimenticando che: "Il Signore è giudice e per lui non c'è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell'oppresso. Non trascura la supplica dell'orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento".

La nostra fede non ci chiede soltanto sentimenti e atteggiamenti intimi, individuali, o manifestati soltanto all'interno delle chiese, nelle preghiere e nelle celebrazioni, ma anche la capacità di diffondere nella società i valori che promanano dal vangelo. Non ci si può sottrare a questo impegno se – come dice ancora papa Francesco – non vogliamo cadere nel fariseismo, e ritrovarci perciò proprio nel personaggio della parabola che torna a casa "non giustificato".

Quant'è difficile questo impegno! E' vero. Ma Gesù ha mai detto che credere in lui è facile? San Paolo, ben consapevole di questa difficoltà, facendo la sintesi del suo percorso di credente, dice: "Ho combattuto la buona battaglia". Se vogliamo che la nostra corsa riceva la corona di giustizia, e che il Signore ci stia vicino e ci dia forza anche la nostra fede deve essere una buona battaglia.


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