Con tutta la città davanti alla porta

V Domenica del Tempo Ordinario - Anno B - 2018

La sofferenza fa parte della nostra esistenza. Possiamo lasciarci intristire nella lamentela e nel cercare risposte che non troviamo, oppure uscire per aiutarci a vicenda a superarle o renderle più sopportabili.

La parola di Dio di questa domenica si apre con il lamento doloroso di Giobbe, l'uomo simbolo della fatica del vivere, che paragona la vita a una dura battaglia e all'ingrato lavoro del bracciante, e che vola via in un "soffio", tra notti lunghe, passate rigirandosi sul letto. Se ci fermassimo al lamento di Giobbe, come è accaduto e ancora accadere, cadremmo nella lamentela, intristiti da considerazioni deprimenti sulla durezza e inutilità della vita: "mesi d'illusione e notti di affanno". E non potremmo pregare con il salmista che ci invita a cantare: "è bello cantare inni a Dio, è dolce innalzare la lode", perché "risana i cuori affranti e fascia le loro ferite".

Allora, cosa pensare e dire della vita?

Lamentiamo le sue pesantezze e la sua fugacità, protestando con Dio, come faceva Giobbe, perché non è altro che "mesi di illusione e notti di affanno", oppure lodiamo il Creatore che ci segue e conosce uno per uno come conosce e chiama le stelle?
Giobbe, alla fine della disputa con Dio, ammette di non potere capire la sapienza di Dio, che "non si può calcolare", e si rifugia nel silenzio: «Cosa ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, due volte ho parlato, ma non continuerò» (Gb 40,4-5).
A noi la risposta l'ha data Gesù con la pagina stupenda che questa domenica ci propone.

E' una giornata di Gesù. Meglio un sabato di Gesù: la nostra domenica. Al mattino la sinagoga, poi a pranzo a casa di Simone e Andrea. Ed ecco la festa rovinata dalla sofferenza: la suocera sta a letto con la febbre, sicuramente molto alta per tenere una donna a letto, e non può offrire l'ospitalità tanto desiderata a quel maestro che gli sta portando via dalla famiglia due figli: Simone e Andrea. "Ma tu guarda! Proprio oggi!", avremmo detto, come diciamo quando gli imprevisti negativi ci rovinano i progetti. Gesù no, ma: "Si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva".

Terminato il sabato con il tramonto del sole, "gli portavano tutti i malati e gli indemoniati". Sembra proprio che tutti gli abitanti di Cafarnao stessero aspettando quel momento per poter finalmente andare da Gesù. Si capisce che lo conoscevano, e sapevano che non avrebbero camminato invano. Così "tutta la città era riunita davanti alla porta".

"Tutta la città era riunita davanti alla porta". Qui bisogna fermarsi perché questa non è un particolare narrativo, ma la risposta alle nostre domande sulla sofferenza. Gesù apre la porta, esce e guarisce "molte malattie e infermità" di ogni tipo: fisiche e spirituali. Tutta la città davanti alla porta, alla nostra porta, alla porta di ciascuno, è la vita con il suo carico "d'illusione e notti di affanno", che si alleggeriscono e possono diventare canti di gioia se si esce per risanare i cuori affranti e risanare le ferite, come Gesù.
Come Gesù. Ma noi purtroppo non siamo Gesù.

Fa riflettere la precisazione dell'evangelista: "guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni". Perché non guarì tutti e perché non scacciò tutti i demoni? Sicuramente non perché non poteva. Riusciva a riportare in vita i morti, e a liberare dalla "legione di demoni" dei Geraseni l'indemoniato furioso (Mc 5,1-20). E se avesse agito così per insegnarci che, pur non potendo liberarci e liberare da tutte le sofferenze, da molte di esse possiamo farlo, se non rimaniamo chiusi in noi stessi, come Giobbe, ma usciamo, consapevoli che tutta la città è davanti alla nostra porta?

La mattina dopo, nonostante l'insistenza di "Simone e quelli che erano con lui", Gesù non tornò a finire le guarigioni, ma andò nei villaggi vicini e in tutta la Galilea per testimoniare a tutti che, pur non potendo togliere la sofferenza dalla nostra vita terrena, molto sollievo si può ottenere se accettiamo di portarlo, come possiamo, a "tutta la città" che sta davanti alla nostra porta.

Vivere così è l'incarico che ci è stato affidato. E' "annunciare il Vangelo". E, anche se non è simpatico dirlo, diciamocelo con san Paolo: "guai a noi se non lo annunciamo". Guai a noi in tutti i sensi: sia qui che nell'aldilà.


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