E adesso, Signore, che si fa?

XXIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C - 2016

La liturgia di questa XXIII domenica del tempo ordinario illumina le situazioni drammatiche del nostro tempo, che suscitano in ciascuno di noi grandi interrogativi, con l'invito a sperare e affidarci all'amore di Dio, anche se non comprendiamo i suoi disegni.

"Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?". E' l'interrogativo che inevitabilmente sorge ogni volta che i nostri ragionamenti timidi e le nostre incerte riflessioni entrano in contrasto con i pensieri di Dio. Sempre vivo dentro di noi, l'interrogativo diventa angosciante in certi momenti, come quando un terremoto si porta via interi paesi con i loro abitanti. Se l'è posto in maniera pubblica il vescovo di Ascoli, Giovanni D'Ercole sopra le macerie e le vittime: «E adesso, Signore, che si fa?», suscitando enorme risonanza, perché interpretava l'interrogativo di tutti, magari espresso con parole e silenzi più angosciati: "Perché ci hai fatto questo?"; "Dove eri, cosa facevi, mentre tutto ci crollava addosso?".


"E adesso, Signore, che si fa?"

E' anche il nostro interrogativo quotidiano, perché il confronto con i suoi pensieri non avviene soltanto su avvenimenti traumatici come le stragi provocate da fenomeni naturali o dalla malvagità umana, ma su ogni fatto della vita quotidiana.
Come ci possiamo rispondere? Abbiamo soltanto due opzioni: o rimanere attaccati ai nostri pensieri, oppure fidarci e affidarci a quelli di Dio, anche quando non riusciamo a comprenderli. E' ciò che ci chiede anche il vangelo di questa domenica.
I nostri pensieri vorrebbero che la nostra famiglia fosse al primo posto, anche per il Signore, che dovrebbe preoccuparsi di custodirla, di proteggerla, di assicurare a tutti i suoi componenti la salute e il raggiungimento dei desideri e dei progetto. Altrimenti perché lo preghiamo?
I pensieri di Dio, manifestati da Gesù, rovesciano tutto: "Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo". Cioè, prima il Signore poi la famiglia. Ed è sempre così. Odiare? No, perdonare. Infischiarsene? No, interessarsene. Trattenere per sé? No, donare agli altri. Fare i furbi? No, essere giusti. Seguire quello che fanno tutti? No, avere il coraggio di rimanere da soli.

E allora: "Adesso, Signore, cosa si fa?".

Fidarsi e affidarsi! Gesù non ignora la difficoltà di questa decisione, infatti raccomanda di ponderarla bene: "Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine?". Però, non fa sconti: "Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo". E "gli averi" a cui teniamo di più non sono quelli che portiamo in tasca, ma nella testa: i nostri pensieri.

Fidarci e affidarci, riconoscendo che i pensieri di Dio sono un bene per noi, al di là delle apparenze, perché non possiamo capire le cose del cielo, dal momento che "a stento immaginiamo le cose della terra, e scopriamo con fatica quelle a portata di mano".

Ci conforta la testimonianza di Paolo. Abbandonando i pensieri umani sulla schiavitù, e accettando quelli di Dio, rimanda lo schiavo Onesimo al padrone Filemone, "non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore". E con questo pensiero di Dio introduce il concetto di fratellanza universale nell'impero romano.


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