Il granello potente

XXVII domenica del Tempo Ordinario - Anno C - 2022

La fede non si misura in quantità ma in qualità.

«Accresci in noi la fede!» esclamano gli apostoli, con un grido che sa di supplica accorata. E hanno fanno bene a chiedere questa grazia. Nel suo ultimo viaggio verso Gerusalemme, Gesù ha presentato loro le condizioni per essere suoi discepoli: amarlo più della propria famiglia e della propria vita; non contare sulla ricchezza, perché non si può servire due padroni; perdonare ed essere misericordiosi con le pecorelle smarrite e con i figli scapestrati o i duri di cuore; non cercare i primi posti… tutte scelte controcorrente, e non per una missione tranquilla e umanamente appagante, ma per portare sulla terra non pace ma fuoco e divisione. Di fronte a queste proposte i Dodici non potevano non sentire inadeguatezza e timore. Ed ecco l’invocazione: «Accresci in noi la fede!».

La risposta inattesa

Gesù non risponde, come si sarebbero aspettati, in modo rassicurante, promettendo vicinanza e aiuto per adeguare le loro forze alla difficoltà del compito, ma con parole che sembrano quasi un rimprovero: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe». Non c’è nessun rimprovero, ma una verità fondamentale: la fede non la si aumenta, o c’è o non c’è. Se c’è – e tocca a noi mettercela – anche piccola come “un granello di senape” dà la forza di spostare un gelso, uno degli alberi con le radici più robuste e profonde.

Abituati dalla pratica religiosa (loro da quella ebraica e noi dalla nostra) gli apostoli per fede intendevano (e noi anche intendiamo) l’offrire a Dio preghiere, digiuni, penitenze, rispetto delle norme rituali, questo perché Dio sia benigno, e faccia ciò che gli chiediamo. Per essi, quindi, accrescere la fede significava aggiungere forza per aumentare questi “sacrifici” a Dio. Proprio come noi. Quando ci dicono, o ci proponiamo, di aumentare la fede pensiamo subito a più Messe, a più preghiere, a più opere di carità. Tutte cose che, se manca il “granello”, il “sì” al “Vieni e seguimi” del Signore, con la disponibilità di amarlo più della nostra vita, con la fede non c’entrano niente. È questo “sì” che dà la forza di sradicare il gelso e di piantarlo nel mare.

Ma non si sposta!

“Come mai a noi non si sposta niente, neanche un filo d’erba, tanto che non azzardiamo nemmeno a chiederlo, perché farlo ci farebbe venire il dubbio che qualcosa in noi non funziona più in modo adeguato? “La fede il gelso lo sposta e come!”. “A chi? A San Francesco!”. Sì, perché il suo granello di senape, il suo “sì”, al Signore, era così gigantesco, da dargli la forza di compiere cose più difficili di spostare gli alberi. Ma, lasciando da parte i “grandi santi” con i quali ci è difficile paragonarci, è attorno a noi che tante persone compiono opere che sembrano umanamente impossibili. Perciò se vogliamo che la fede ci conceda la forza di spostare il gelso, come il Signore ha assicurato, dobbiamo verificare se in noi c’è il granello di senape, cioè l’adesione sincera, fiduciosa e decisa al suo: “Vieni e seguimi”.
Come fare le verifica ce lo dice Gesù in maniera di nuovo inaspettata.

Servi inutili

Torniamo alla scena iniziale, a Gesù che espone e approfondisce condizioni per essere suoi discepoli, talmente ardue da suscitare l’invocazione degli apostoli. Ci sembrerebbe ovvio e giusto, che, dopo aver provocato in loro timore e perplessità, egli li avesse incoraggiati: “Tranquilli, siete stati bravi e sarete premiati”. Invece: «quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». Il Signore ci perdoni, ma nel nostro linguaggio questa è una mazzata. Chiede loro di accettare impegni difficili, e poi una volta eseguiti, li dichiara servi inutili? No! Non dice che saranno dichiarati servi inutili, ma di riconoscersi servi inutili. È tutta un’altra cosa. Riconoscersi consapevolmente così significa aver compreso che quel “sì” sincero e deciso alla sua impegnativa chiamata non è un favore a Dio, ma il nostro bene. Credere che offerte, preghiere e sacrifici siano, come quelli di pecore e buoi, un dono a Dio per ottenere la sua benevolenza e il suo aiuto è stata da sempre la convinzione degli uomini e delle donne, fin da quando si viveva nelle caverne. E lo è, subdolamente, anche in noi che chiediamo al Signore, appagato dai nostri sacrifici e dai nostri incensi, che sradichi il gelso per piantarlo dove piace a noi.


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