Nella Trasfigurazione di Gesù la filigrana del cammino della fede.
Gesù con i Dodici sta andando verso Gerusalemme. Nel percorrere le strade che per tre anni lo hanno visto e sentito annunciare il regno dei Cieli - con parabole, miracoli, discorsi, polemiche con gli oppositori - la sua consapevolezza che questo sarà l’ultimo viaggio è totale. Di questo cerca sempre più apertamente e chiaramente di rendere coscienti i suoi amici, rivelando che dovrà soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e poi venire ucciso per risorgere il terzo giorno.
I discepoli non capiscono e non vogliono capire. Non fanno domande per paura che le risposte siano quelle che temono. Discutono tra di loro su chi sia il più grande, addirittura brigando, come i figli di Zebedeo, per assicurarsi le due poltrone più importanti, figuriamoci se possono accettare che la loro avventura stia andando incontro a un esisto così drammatico e doloroso. Pietro, addirittura, preso in disparte Gesù, ha cercato di dissuaderlo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai!», rimediando un severissimo rimprovero: «Va' dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo»; sei un inciampo alla mia obbedienza alla missione affidatami dal Padre.
Gesù li capisce, perché anche lui teme la terribile prova che dovrà affrontare e, per decidere di proseguire verso Gerusalemme, ha dovuto prendere una «ferma decisione» - letteralmente: ha indurito il suo volto - come quando si deve ricorrere a tutte le risorse della volontà.
Per uscire da questa situazione di incertezza, di dubbio, di delusione, Gesù, conduce tre dei discepoli, i più restii ad accettare la conclusione fallimentare dell’avventura, Pietro, Giacomo e Giovanni, su un alto monte, che la tradizione cristiana identifica con il Tabor. Qui viene trasfigurato dal Padre: il suo volto brilla come il sole e le sue vesti divengono candide come la luce, mentre Mosè ed Elia conversano con lui. È un lampo di cielo che li lascia tanto frastornati da non rendersi conto di dove sono, sicuramente un luogo meraviglioso, tanto da proporsi per costruire tre capanne e restare sempre lassù, dove non ci sono anziani, capi dei sacerdoti e scribi che ostacolano e minacciano il Maestro.
Quel lampo di cielo è invece l’incoraggiamento a tornare giù nella pianura per affrontare la prova con fiducia e coraggio, al seguito di colui che la voce misteriosa aveva dichiarato: «Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».
Nello scendere, i tre continuano a non comprendere quello che è accaduto, e Gesù non li incoraggia ad avere fretta di capire. Lo capiranno in seguito, quando la sua risurrezione manifesterà che il viaggio verso Gerusalemme non portava al fallimento, ma al compimento. Lo testimonierà Pietro: «Non siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Questa voce – “Questi è il Figlio mio, l'amato, nel quale ho posto il mio compiacimento” - noi l'abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte».
È impossibile non scorgere nel viaggio di Gesù verso Gerusalemme, in trasparenza, come in una filigrana, il viaggio della vita, quando arriva il momento in cui progetti, desideri, aspirazioni, traguardi… o li si lascia svanire, oppure li si affronta con la ferma decisione di portarli a compimento. In questi frangenti è necessario lasciarsi portare sull’alto monte, come Pietro, Giacomo e Giovanni, per avere un lampo di cielo che ridia il coraggio per continuare il viaggio.
Ma dov’è e cos’è questo alto monte? La Chiesa da sempre indica i sacramenti, la preghiera, la carità. Ma il Signore non fa mai mancare neanche “il lampo di cielo” di coloro che testimoniano con la vita che la fede in Gesù non è andare dietro a favole artificiosamente inventate, ma testimoniare la grandezza del Figlio, l'amato, nel quale Dio ha posto il suo compiacimento.