Le prime comunità cristiane erano riconoscibili e stupivano i pagani soprattutto per la capacità dei membri di volersi bene reciprocamente; oggi è necessario recuperare questa dimensione di testimonianza, che ci rende credibili e fecondi.
I cristiani della prima comunità di Gerusalemme, che godevano "il favore di tutto il popolo" perché "stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno" (At 2, 42-47), cioè compivano segni inequivocabili di amore reciproco, avevano capito bene il comandamento (non un dei, ma "il" comandamento) di Gesù: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi". I cristiani hanno continuato a capirlo per alcuni secoli, finché i pagani dicevano di loro: "Guardate come si amano". Poi questa comprensione si è attutita fino, qualche volta, a scomparire. E' necessario riprendere questo comandamento e capirlo a fondo, perché il nostro oggi ce lo chiede.
Partiamo dal contesto. Gesù pronuncia queste parole non di fronte alle folle, alle quali aveva ricordato e testimoniato continuamente il comandamento dell'amore di Dio e del prossimo, ma ai Dodici, e in un momento d'importanza straordinaria e unica: dopo l'ultima cena, prima di uscire per recarsi all'orto degli ulivi. Sempre in questa situazione, ai Dodici aveva detto in maniera ancora più chiara: "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,35). Da questo (cioè dall'amore gli uni verso gli altri) non da altro. Ciò significa che i discepoli di Gesù non possono essere riconosciuti come tali se partecipano, comunitariamente o individualmente, ad attività caritative verso i poveri e i bisognosi, né tanto meno se si incontrano per celebrazioni e atti di culto, ma se testimoniano un amore reciproco che li indica agli altri come portatori di un modello di vita diverso, non basato sull'aggressività, sulla contrapposizione, sull'arrivismo, sull'indifferenza.
Oggi cosa succede? Noi cristiani veniamo identificati e additati non con il "guardate come si amano", ma come "quelli che vanno a messa", "quelli che frequentano la parrocchia", "quelli che fanno parte del gruppo X, del movimento Y, dell'associazione Z". Purtroppo è così. Abbiamo sì dei grandi campioni di carità da sventolare: Madre Teresa di Calcutta, don Oreste Benzi e tanti altri, ma non il segnale di riconoscimento deciso da Gesù.
Questo non vuol dire che siamo brutti e cattivi, ma che ci siamo lasciati spiazzare dalla storia, non avendo avuto la prontezza e la capacità (forse anche la voglia) di interpretare il comandamento di Gesù secondo l'esigenza dei tempi. Non abbiamo saputo comprendere, con la prontezza richiesta da Gesù, i segni dei tempi che annunciavano la fine della società cristiana del "tutto un po' cristiano e tutti un po' cristiani".
Adesso, senza perdere tempo a batterci il petto, dobbiamo ritrovare con urgenza la capacità di farci riconoscere non dalle percentuali elaborate dagli esperti di statistiche, ma dalla testimonianza che ci amiamo gli uni gli altri. Questo non per chiuderci in un ghetto (contro questo pericolo papa Francesco sta combattendo la sua principale battaglia), ma perché soltanto così possiamo essere annunciatori e testimoni credibili che Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui, e che osservare i comandamenti è accogliere il suo amore, affinché la nostra gioia sia piena.
Cosa possiamo fare per ricostruire queste comunità segnalate "dall'amore reciproco"? Certamente non possiamo copiare materialmente i cristiani di Gerusalemme che "stavano insieme e mettevano ogni cosa in comune" e in pochi anni sono finiti tutti in miseria. Dobbiamo tradurre la loro esperienza nella vita di oggi, senza aspettare e sperare che questa operazione sia compiuta dal papa e dai vescovi, magari con la riforma delle diocesi e delle parrocchie! Le diocesi e le parrocchie sono sorte dopo i cristiani "guardate come si amano". Anche oggi sarà così. Senza ipotizzare operazioni grandiose, possiamo iniziare dal mettere più impegno (un po' lo si sta facendo) a far sì che le nostre Messe, le celebrazioni dei nostri sacramenti, le nostre iniziative di carità e di servizio diventino occasioni per conoscerci e volerci bene e per farci riconoscere per strada, nel palazzo, nei luoghi di lavoro e di tempo libero come persone che dimostrano che è possibile volendosi bene.
Questo non farà diminuire il nostro amore verso tutti. Lo renderà più forte, più credibile, senza preferenze di persone, e più efficace per annunciare che Dio è amore e che il suo amore manifestato dal suo Figlio mandato nel mondo, si manifesta un po', per quanto in maniera umile e difettosa, anche per mezzo nostro.