La buona battaglia

XXX Domenica del Tempo Ordinario - Anno C

Ritrovare una fede sincera, combattiva, coraggiosa.

A Paolo, a Roma agli “arresti domiciliari” - gli era stato concesso di abitare per conto suo con un soldato di guardia -, deluso perché nella prima sua difesa in tribunale nessuno lo aveva assistito, e perché nei due anni in cui gli era stato concesso di vivere in una casa presa in affitto in attesa della sentenza definitiva che lo avrebbe condannato al martirio, tutti lo avevano abbandonato eccetto Luca, l’evangelista, che egli chiama il «caro medico», scrive al suo discepolo e amico Timoteo: «È giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede».
Qual è il premio per questa sua buona battaglia vinta, consigliata da combattere e da vincere anche al discepolo, e a tutti i cristiani? L’apostolo risponde: «È la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno». È proporzionato questo premio a tutto quello che aveva fatto e sofferto per annunciare il Vangelo, finendo in carcere abbandonato da tutti? La risposta dell’apostolo è sì, perché tutto gli è servito per «conservare la fede».
Per noi invece la sua risposta non è convincente, perché non siamo stati abituati (e continuiamo a non esserlo) a considerare la fede un bene da conservare con la battaglia, cioè con ardore, coraggio, impegno, determinazione…, tutto ciò che serve per combattere e vincere. E questo è un grave problema nella società attuale nella quale non si sa più dov’è il bene e dov’è il male, chi è l’amico e chi il nemico, cosa prendere e cosa lasciare; dove è più che mai necessario dare “combattività” alla fede in Cristo. Ma contro chi combattere, dove combattere, chi sconfiggere, con quali armi?

Il fariseo

Gesù da intelligente ed efficace comunicatore lo indica con una delle sue straordinarie parabole, che forse anche per averle conosciute da bambini, spesso vengono scambiate per raccontini edificanti, mentre sono strumenti di comunicazione provocatori e stimolanti. Eccoli i due uomini che si recano al tempio a pregare. Uno è un fariseo, appartiene alla classe sociale prevalente e più potente, molto apprezzata per una osservanza della Legge scrupolosa, anche se, secondo Gesù, esteriore, meschina, priva di misericordia e di giustizia. Sembra di vederlo. In piedi, il più vicino possibile al Sancta Sanctorum, petto in fuori. Non ha da chiedere niente a Dio perché ha tutto, deve soltanto ricordagli quello che è, e quello fa a differenza degli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri… come quello che sta bofonchiando laggiù in fondo.

Il pubblicano

Quello laggiù con gli occhi bassi che invoca: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» è un pubblicano, una categoria malvista. Il fariseo sa bene che è peccatore non per essere ladro, ingiusto, adultero, ma perché a servizio dei Romani esercita una professione che lo rende impuro, facendogli anteporre la legge dell’imperatore a quella di Mosè.

La conclusione a sorpresa di Gesù

Terminato il racconto, coloro che ascoltavano aspettavano che Gesù traesse da bravo maestro la conclusione, lodando il fariseo devoto e pio che digiunava due volte la settimana, pagava tutte le decime per il Tempio, invece - ecco l’efficacia della parabola! - spiazza gli ascoltatori lodando il pubblicano: «Io vi dico: questi [il pubblicano], a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

La nostra battaglia

La motivazione di Gesù per la nostra battaglia è chiara: sconfiggere il fariseo sempre in agguato in noi e intorno a noi. Ma esistono oggi cristiani farisei come quello del Tempio? Sicuramente sì, ma forse meno numerosi e fastidiosi perché non c’è nessun vanto e nessun vantaggio a farsi vedere cristiani. Anzi, tra i dotti e i sapienti “sotuttoio” si viene considerati preistorici. Il nostro grave problema è non sentire il bisogno di invocare: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» per non combattere la buona battaglia.


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