La fede è per tutti ed è tutto

XX Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Nella Chiesa senza preclusioni o barriere.

Per tutti e di tutti, si proclama Dio per bocca del profeta Isaia: «La mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli». Verità assodata? Un po’ sì, perché, grazie a Dio, la convinzione che siamo tutti persone - per chi crede: figli dello stesso Padre - si è fatta strada molto, rispetto a non molti anni fa. Però non mancano - e purtroppo si riproducono abbastanza in fretta! - coloro che insistono a considerare Dio dalla loro parte per motivi di razza, di pelle, di età, di sesso, di cultura… La loro presenza viene allo scoperto quando la “casa di preghiera” viene identifica, come è giusto, con la Chiesa. Lo denuncia con forza papa Francesco, che nella GMG a Lisbona ha chiesto ai giovani di ripetere più volte insieme a lui che la Chiesa è per tutti: per todos, todos, todos; non riferendosi alle antiche chiusure per razza o per nazionalità, ma a quelle attuali alzate tra i credenti, in primis da coloro che accusano papa Francesco di azzerare ogni differenza tra credenti e non, tra cristiani e non. Purtroppo l’illusione del “Gott mit uns” (Dio con noi) è sempre in agguato, ed è tanto più penoso quando prende spunto e si nutre di motivazioni piccole e irrilevanti, come canti, gesti, incarichi… Attenti! Dove il Padre “nostro” si traduce con Padre “mio”, dove si ritiene di essere gli unici e veri adoratori di Dio, non c’è “casa di preghiera per tutti” ma setta.

È la fede che salva

La “casa di preghiera” è di tutti e per tutti, però dipende da noi decidere di abitare in essa come il figlio giovane, sempre pronti ad andarsene in cerca di altri padroni, come quello maggiore, malcontenti perché il Padre non fa quello che vorremmo (Lc 15, 11-32), oppure abitanti operosi, uniti ai fratelli e alle sorelle con la fede profonda della donna cananea. Nell’episodio di questa domenica, raccontato in modo sorprendete e un po’ sconcertante, come se Gesù fosse stato scortese e insensibile non rivolgendo “neppure una parola” alla donna che gridava: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio», egli in realtà mostra ai discepoli - che da bravi ebrei pensavano che Dio dovesse occuparsi unicamente di loro - che soltanto la fede ci rende figli suoi e ci fa accogliere come figli suoi: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri».

La preghiera insistente

L’episodio della cananea ci stimola anche riflettere su una caratteristica della nostra preghiera: l’insistenza. Più ci sembra che il Signore non ci ascolti, più dobbiamo continuare come la cananea, che gli andava dietro gridando, e come Gesù stesso in altri brani ci invita a fare: «Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto» (Lc 11,9), addirittura paragonando il Padre a un giudice disonesto, stressato dalla insistenza di una vedova (Lc 18,16), e a un uomo restio ad aprire la porta a un amico in ora tarda (Lc 11,5).

Perché è necessario insistere? Di certo non perché Dio vuole fare il prezioso, o perché vuole farcela faticare, ma perché l’insistenza ci conduce ad approfondire la consapevolezza del nostro essere creature, del nostro essere “piccoli” davanti a lui, e perciò disponibili ad accettare che la sua risposta, anche se sembra assente o deludente, è un bene per noi. Quanto questa accoglienza della volontà del Padre sia difficile l’ha testimoniato drammaticamente egli stesso quando nel Getsemani: «cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell'ora. E diceva: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”» (Mc 14,36). Non ciò che voglio, ma ciò che vuoi tu. Questa è la fede.


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