Riconoscere i doni di Dio è il presupposto per condividerli.
«Gli altri nove dove sono?» chiede Gesù. I nove che mancano sono i lebbrosi che Gesù aveva “purificato” insieme a quello che «vedendosi guarito, era tornato indietro lodando Dio a gran voce, prostrandosi davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo». Nella domanda di Gesù non manca un po’ di umana delusione, che ce lo fa sentire in sintonia con i nostri sentimenti, però il suo rammarico nasce dal fatto che i nove non hanno sentito il bisogno di tornare per «rendere gloria a Dio», e non hanno saputo e voluto apprezzare il dono che avevano ricevuto, come invece ha fatto il “samaritano”, lo “straniero”, che secondo gli scribi, i farisei e i capi del popolo, Dio non lo conosceva e non poteva nemmeno nominarlo.
Identica situazione nella prima lettura. Dopo il rifiuto perentorio («Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò…») del profeta Eliseo di accettare un dono da Naamàn per esse stato liberato dalla lebbra, il comandante dell’esercito del re di Aram chiede di poter portare via tanta terra quanta ne bastava per un altare dove compiere sacrifici e olocausti al Dio che lo aveva guarito.
Nel rimprovero, Gesù conferma la sua forte e costante disapprovazione per quelli che avrebbero potuto e dovuto rendere grazie a Dio e non lo hanno fatto: «Guai a te, Corazìn, guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e a Sidone fossero avvenuti i prodigi che avvennero in mezzo a voi, già da tempo, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite» (Lc 10,13).
La condanna di Gesù contro coloro che non sanno apprezzare il dono ricevuto è da tenere sempre sotto osservazione, perché il rischio della “fede non fede” è sempre in agguato, quando non nasce dalla gratitudine a Dio e non si nutre di essa, riducendosi ad abitudine, a rifugio, a ricerca di miracoli senza essere ciò che deve essere: il granello di senape che sposta gli alberi. Infatti, se i pensieri, le parole, le decisioni, le ricchezze, il rapporto con gli altri, il perdono, la pace, tutto quello che abbiamo non vengono da Dio… decidiamo noi, lo spendiamo noi, magari chiedendo a Dio di sostenere le nostre scelte e di aiutarci a fare la “nostra” volontà, senza bisogno di tornare a ringraziare.
Prostrarsi davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo non è una “scelta per la domenica”, nel senso che non agisce e non si esaurisce in un rapporto privato e spirituale con Dio, ma entra e agisce nei giorni feriali, nella vita quotidiana. La fede che nasce dalla gratitudine deve manifestarsi in una vita fatta di rapporti buoni, benevoli, attenti con tutte le persone e in tutti i luoghi; quella che papa Francesco amava riassumere con tre parole: "grazie", "prego", e "scusa", purtroppo carenti, se non assenti, nella vita individuale, familiare, sociale, politica.
Sia nella vita reale che in quella rappresentata e raccontata dai media e dai social la gratitudine è talmente rara che quando si manifesta suscita meraviglia, quasi da gridare al miracolo, perché lo spettacolo costante e vincente che abbiamo davanti agli occhi è quello del litigio, della contrapposizione, della rabbia, del chi strilla più forte (vedi i talkshow televisivi) del pretendere senza dare. È per questa situazione che ha suscitato tanta eco l’invito di Papa Leone XIV a dare spazio a «parole disarmate e disarmanti». Non riconoscere che tutto ciò che abbiamo è dono di Dio e che di Dio ce n’è uno solo e nessun altro, sfocia nella pretesa: “gli altri si diano da fare”. Gli altri chi? Chiunque purché siano gli altri. E noi? Per noi marce, cortei, fiaccolate, volo di palloncini e gridare con decisione: “No alla violenza”, “no alla guerra”, “no ai femminicidi”, “no all’inquinamento e allo sfruttamento della natura”… senza il "grazie", "prego", "scusa" e senza sentire il bisogno di tornare a lodare Dio a gran voce.