Il pianto degli esiliati, che sospirano il ritorno a Gerusalemme, diventa canto di gioia e di speranza, perché Dio salva il suo popolo e lo fa sedere alla mensa del cielo. Per questo, pur in condizione di provvisorietà, possiamo avere fiducia nel futuro e attendere il compimento delle promesse.
La commovente preghiera dei Giudei che, deportati a Babilonia, promettono di non dimenticare mai Gerusalemme, potrebbe essere interpretata, al traino del "va' pensiero sull'ali dorate" del Nabucco verdiano, come un inno alla nostalgia, o tutt'al più a una speranza consolatoria di gente che vive nelle condizioni difficili del mondo, e si consola con il pensiero che ci sarà – si spera – un paradiso che ci consolerà delle sofferenze presenti.
Nel contesto della Parola di questa domenica, invece, il salmo diventa una preghiera di speranza "che non delude" (Rm 5,5), perché non siamo figli dell'esilio, ma di Dio "ricco di misericordia" che "da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo". "Siamo, infatti, opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo". La vita di fede non è sognare Gerusalemme - il paradiso - ma abitarla già, camminando "nelle buone opere per le quali siamo stati creati in Cristo".
Il nostro esilio non è essere stati portati via da Gerusalemme, ma il non abitarci ancora in pienezza. L'esilio è la nostra provvisorietà, ma essere in cammino verso "la nostra cittadinanza nei cieli" (Fil 3,20). Questa speranza della pienezza non ci allontana dall'impegno concreto, aspettando i beni futuri, ma è l'energia che ci ricarica nel percorrere fin d'ora i beni futuri, perché non saremo salvati, ma "siamo salvati in Cristo". Non torneremo a Gerusalemme. Ci siamo già. Dobbiamo soltanto realizzare la nostra cittadinanza completa. Non è un ritorno, ma una presa di possesso, un lavoro per la sistemazione definitiva. E' come quando ci si trasferisce in un'altra città: ce ne vogliono di pratiche e di incombenze per sentirsi pienamente a casa.
Il nostro esilio è camminare nella provvisorietà. E' una condizione difficile, perché, come per gli ebrei nel deserto i "serpenti brucianti" (Nm 21,6) sono sempre pronti a mordere. Basta, però, alzare gli occhi verso colui che è stato "innalzato perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna", per neutralizzare le ferite. Questo è il cammino della fede: piedi per terra e sguardo rivolto in alto, "a colui che hanno trafitto" (Gv 19,37).
"Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion", prega il salmista. Noi, lungo i fiumi di Babilonia, non sediamo, ma camminiamo pieni di speranza, nella certezza che "Dio, ricco di misericordia, già "ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù". Quel posto è già nostro, a meno che noi, colpevolmente non decidiamo di rinunciarci. Infatti, anche quando i tempi sono duri, e si è tentati di rassegnarsi all'esilio come la nostra situazione definitiva, in realtà è sempre Dio che dirige la storia. Nessun ebreo poteva pensare che i progetti del Signore si realizzassero per mezzo di un pagano, il re Ciro, che inizia il suo regno, adempiendo la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremia: "Il Signore, Dio del cielo... mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!".
"Il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!", dice Ciro.
Niente nel nostro cammino verso Gerusalemme può e deve convincerci a "sedere e piangere lungo i fiumi di Babilonia", perché ogni difficoltà altro non è che la voce misteriosa del Signore che, attraverso i percorsi più strani e imprevedibili, ci esorta: "Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!".
"Salga!". Bellissimo! Non: "vada", ma: "salga". Perché Gerusalemme è in alto. E per arrivarci bisogna salire, guardando in alto, a colui che è stato innalzato "perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna".