La parabola del «Padre misericordioso» non è poesia

IV Domenica di Quaresima - Anno C - 2019

Tra lo spendaccione e il calcolatore ci vorrebbe un terzo figlio come noi: un po' l'uno e un po' l'altro. Ma il terzo figlio non c'è.

La parabola del padre misericordioso è talmente conosciuta che è difficile accoglierla come un invito efficace alla conversione; ed è talmente bella da essere scambiata per una poesia da gustare o per un dipinto da contemplare. Cerchiamo di evitare questi atteggiamenti, analizzandola con attenzione.

I destinatari.
Gesù la rivolge ai farisei e agli scribi, infastiditi dal fatto che egli si lasciasse circondare da pubblicani e peccatori. Per ascoltarla come rivolta a noi, dobbiamo, perciò, identificarci con i farisei, cioè credenti in Dio esteriori e abitudinari; e con gli scribi, cioè gente che le cose di Dio le sa e le spiega agli altri, ma non ha bisogno di praticarle. "Noi come i farisei e gli scribi? Per carità!". Dài! Facciamo finta di esserlo per capire meglio.

I protagonisti.
Per comprendere le parabole è necessario provare a identificarsi con i personaggi. Trascurando le comparse (l'abitante di quella regione che manda il malcapitato a pascolare i porci e i servi che preparano la festa del ritorno), i protagonisti sono il padre e i due figli.

Il padre.
Metterci al suo posto non è possibile, perché quell'uomo è Dio, e anche se non di rado ci passa per la mente l'idea che tante cose le avremmo fatte e le faremmo meglio di lui, non ci pare il caso di sostituirci a lui. Però possiamo immaginare come si sarebbero svolti i fatti se quel padre fossimo stati noi.

Il figlio maggiore.
Non siamo come lui. È troppo meschino e calcolatore. Non che abbia tutti i torti ad avercela con quel fratello che, finché era rimasto in casa non si era sicuramente ammazzato di fatica e che, dopo essersela spassata allegramente, veniva accolto dal padre come se avesse fatto una semplice scappatella. Però, di fronte al padre che lo va a chiamare di persona, dopo aver fatte le sue rimostranze, avrebbe dovuto cedere. Anche se quando andremo di là, Dio trattasse allo stesso modo chi a messa ci è andato, le preghiere le ha dette, un po' di carità l'ha fatta, e quelli che se ne sono sempre infischiati dei dieci comandamenti e di tutto il resto, qualcosa da recriminare ce l'avremmo.

Il figlio più giovane.
Nemmeno con il figlio giovane possiamo identificarci, perché il ragazzo l'ha fatta grossa. Esigendo la sua parte di eredità ha praticamente considerato morto il padre e, sperperandola nel modo peggiore, ha dimostrato di non avere il minimo rispetto per ciò che gli era stato donato. Senza dimenticare che la decisione di tornare a casa per la fame e quella specie di "poesiola" che mette su per ricevere il perdono autorizzano qualche dubbio sulla sua sincerità. No, non siamo come lui. Noi qualche scappatella l'avremo anche fatta, ma sempre roba da poco: debolezze, errori, incoerenze. Per noi ci vorrebbe un terzo figlio. Uno che sta un po' dentro e un po' fuori; che un po' obbedisce per amore e un po' per paura; che un po' è riconoscente e un po' recrimina; che un po' si sente figlio e un po' è servo. Ma il terzo figlio non c'è, e allora questa parabola, bellissima, per noi è soltanto da ammirare, e semmai da raccontare a chi ne ha bisogno.

Se ragioniamo così – e purtroppo spesso ragioniamo così - abbiamo la prova "provata" che non dobbiamo fingere di essere come i farisei e gli scribi, perché lo siamo realmente, e Gesù sta parlando proprio a noi. Non è facile ammetterlo, ma è così. Ascoltiamo allora l'esortazione di Paolo: «Lasciatevi riconciliare con Dio». Il che, concretamente, significa:

1. Verificare se stiamo gestendo i beni che il Padre ha messo nelle nostre mani (la vita, le capacità, il tempo, i soldi, le amicizie, relazioni...) per il bene della "sua casa"; 2. Se li stiamo sperperando nel "paese lontano" del nostro egoismo, come il figlio più giovane; 3. Se li viviamo nella sua casa, ma come un peso, da servi, con una fede senza gioia e gratitudine.

Poi decidiamo il da fare.


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