Lasciare la terra, la parentela, la casa

II Domenica del Tempo di Quaresima - Anno A -2017

Seconda Domenica di Quaresima. Il Tabor e... noi! Gesù ci insegna che il Tabor non è il luogo dove si vive, ma dove ritroviamo coraggio per le scelte della pianura, dove, in ogni luogo e in ogni momento, il Signore chiama: "Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò".

L'andamento della parola di Dio delle domeniche di Quaresima è sempre lo stesso, perciò come sempre dopo le tentazioni di Gesù, ci viene proposta la sua trasfigurazione. Per comprendere il perché di questa scelta, è necessario tradurre il generico incipit: "in quel tempo" con "sei giorni prima". Infatti "sei giorni prima" di quanto accade nell'episodio che ci viene raccontato, Gesù aveva cominciato a "spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno". Cioè, le tentazioni del deserto sarebbero arrivate al punto più alto e decisivo.

Alle sue parole, I discepoli erano rimasti esterrefatti, tanto che Pietro, mettendosi inconsapevolmente nella parte del tentatore, si era preso un raggelante rimprovero. Dopodiché Gesù, come se non bastasse, aveva preannunciato che i suoi discepoli avrebbero dovuto affrontare il suo stesso percorso: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua". Esterrefatti i discepoli, e preoccupato anche Gesù, che, come racconta l'evangelista Luca, per prendere la "ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme" (Lc 9,51 ) dovette tirare fuori tutte le sue energie spirituali.

In questo momento così arduo in cui Gesù e i suoi discepoli, come Abramo, sono chiamati a "lasciare terra, parentela, casa", il Padre, che aveva mandato "gli angeli a servirlo" nel deserto (Mt 4,11), e che gli manderà l'angelo a consolarlo nell'orto degli ulivi (Lc 22,43), adesso gli manda Mosè ed Elia (due personaggi esistiti in vista di lui) e lo "trasfigura", donandogli un lampo della gloria futura, assicurandogli la sua predilezione, e incoraggiando i suoi discepoli ad ascoltarlo: "Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo".

Affascinati da quel lampo di gloria, Pietro, Giacomo e Giovanni avrebbero voluto rimanere per sempre lassù, dove non ci sarebbe stato da soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi. Lassù tutto era bello e facile, brillante come il sole e candido come la luce.
Invece bisognava scendere, perché il Tabor non è il luogo dove si vive, ma dove ritrovano coraggio le scelte della pianura, dove, in ogni luogo e in ogni momento, il Signore chiama: "Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò".

Noi come Abramo, come Gesù, come i suoi discepoli?
Sì, anche se il paragone ci spaventa non poco, e naturalmente fatte le debite proporzioni. Per noi lasciare la nostra parentela, la nostra casa, la nostra terra per andare a Gerusalemme significa lasciare il nostro modo di vivere la parentela, la casa, la terra, credendo non a quello che vediamo e tocchiamo, ma fidandoci di una promessa che non ci è dato verificare: "Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione".

San Paolo chiama tutto questo: "soffrire per il vangelo", e ci invita a seguire il suo esempio. Dove trovare questa forza? Non in noi stessi, ma, come afferma l'apostolo, nella "forza di Dio", che sicuramente non ci farà mancare il suo incoraggiamento, come ha fatto con Gesù su l'alto monte.


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