La Chiesa descritta dagli Atti degli Apostoli affascina. Ma se non la si può copiare la si può, però, far rivivere con una fede che trasformi la vita in profonda conoscenza e amicizia con Gesù.
La domenica dell'ottava di Pasqua è ricchissima di stimoli per la riflessione. La prima lettura ci ripropone una comunità cristiana con "un cuore solo e un'anima sola", immagine di vita fraterna che ha affascinato i cristiani di tutti i tempi e nella quale tutti, anche oggi, vorremmo rispecchiarci e vivere. La seconda, con una sintesi efficacissima, ci ricorda di non dimenticare che l'amore di Dio consiste nell'osservare i suoi comandamenti, non nelle chiacchiere e nei sospiri. Il vangelo ci cattura con l'apostolo Tommaso. Il suo: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» è spesso il nostro. Perciò ci dà coraggio: se chi è vissuto con Gesù ha sentito la necessità di toccare e vedere per credere, non dobbiamo avere paure dei nostri dubbi e incertezze. Anche il salmo è stimolante: se la "pietra scartata" dagli uomini è stata fatta diventare dal Signore "pietra d'angolo", non dobbiamo lasciarci condizionare dal sentirci "scartati" dalla mentalità dominante, perché realmente vincenti sono solo i progetti del Signore e chi li sostiene.
Tutti questi motivi di riflessione e stimoli alla conversione possono essere riassunti in un brevissimo aggettivo possessivo: "mio", che generalmente desta sospetti quando si parla di fede, perché fa presto a prendere il posto di Dio.
"Mio Signore e mio Dio!", esclama Tommaso davanti a Gesù, che, per la sua misericordia, pur con un bonario rimprovero, è tornato per confermarlo nella fede. Attenti bene! L'apostolo non dice: "Signore e Dio", ma "mio Signore e mio Dio!". Non è un particolare da poco. "Gesù, Signore e Dio" è una nozione, come: "Ronaldo un calciatore", o: "Nibali un ciclista", che può arricchire le conoscenze senza interessare la vita. Può essere anche considerata una dichiarazione di fede in Dio, ma generica e superficiale, più o meno come quella che risuona sulla bocca anche di tanti cristiani praticanti: "Qualcuno ci deve essere". Nell'un caso e nell'altro è un atto di fede che non impegna la vita, tant'è vero che, come dice san Giacomo, può essere fatto anche dai diavoli: "Tu credi che c'è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano" (Gc 2,19). Invece il "mio Signore e mio Dio!" di Tommaso non è una nozione o una generica professione di fede, ma la confessione di una relazione personale che dal dubbio diventa promessa di amicizia e fedeltà. Gesù, offrendogli ciò che lui aveva chiesto, lo conquista, anche senza il bisogno di affondare il dito nel costato aperto - come descrivono i pittori, ma non l'evangelista - e da quel momento Gesù diventa il "suo Signore e suo Dio".
Allora Tommaso, fratello nostro nel dubbio, lo diventi anche nella fede profonda. Domandiamoci: per noi c'è un Signore e un Dio presente nelle nostre idee, oppure c'è un "mio Signore e mio Dio!" operante nella nostra vita? La risposta è fondamentale. Nel corso dei secoli, sono stati numerosi i tentativi di creare comunità cristiane come quella degli Atti: "un cuore solo e un'anima sola", dove" nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune", e "nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno". Tutti i tentativi si sono spenti velocemente, quando non sono scaduti in sette o in esperienze negative, perché ridare alla Chiesa in generale, e alle comunità cristiane in particolare, la forza e la bellezza della comunità degli Atti degli Apostoli è possibile soltanto con credenti ricchi di fede da "mio Signore e mio Dio!", non copiando la storia.
Soltanto con questa fede l'amore di Dio smette di essere una pratica fredda e stanca dei comandamenti e diventa osservanza libera e gioiosa. E soltanto questa fede fa entrare tra i "beati" che, pur non avendo visto fisicamente Gesù, credono in lui, e impegnano la vita a dare "con grande forza la testimonianza della sua risurrezione".