Nessuno fuori dalla nostra vita

VI Domenica del Tempo Ordinario - Anno B

La gloria di Dio è la dignità dei suoi figli.

Leggere o ascoltare la Bibbia senza precisi riferimenti al contenuto del testo, all’autore e al tempo in cui è stato scritto può dare la sensazione che tra i vari libri ci sia un contrasto tale – soprattutto tra quelli del Vecchio e del Nuovo Testamento – da togliere al messaggio verità e autorevolezza. Un esempio concreto viene offerto dalla prima lettura e dal Vangelo di questa domenica. «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento», dichiara la legge di Mosè, rigorosamente valida anche al tempo di Gesù. Che, però, al lebbroso che lo supplicava in ginocchio, «tese la mano, lo toccò e disse: “Lo voglio, sii purificato!”. E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato». Lo toccò. “Allora – avranno pensato i presenti e noi con loro – chi dobbiamo ascoltare Mosè o Gesù? Il contrasto è evidente”. Non è una contraddizione ma “dare pieno compimento”, come dichiara lo stesso Gesù: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17). Si dovrebbe parlare di controsenso se la Bibbia fosse un libro di storia o di idee filosofiche imbalsamate, e non di proposte e risposte per la vita che va avanti sempre con nuove acquisizioni ed esigenze.

Il “pieno compimento”

Il gesto di Gesù fa compiere un salto in avanti alla legge di Mosè, perché afferma che non esistono persone impure da non accostare, da cui non farsi toccare e quindi da dover lasciare “fuori dall’accampamento”. Tutte sono meritevoli di compassione, bisognose di essere “toccate”, e di essere reintrodotte nella società, “nell’accampamento”. «Ogni vita umana, infatti, anche quella più segnata da limiti, ha un valore immenso ed è capace di donare qualcosa agli altri» (Papa Francesco, 4 febbraio, Giornata per la vita). Questo vale per tutti i lebbrosi di oggi, gli intoccabili, che «nelle molteplici dimensioni della povertà, sono gli oppressi, gli emarginati, gli anziani, gli ammalati, i piccoli, quanti vengono considerati e trattati come ‘ultimi’ nella società» (Giovanni Paolo II, citato da papa Francesco).

Una società accogliente

Davanti a un panorama così ampio e tristemente variegato di “lebbrosi da purificare”, cioè da non guarire soltanto nel corpo ma anche nella dignità, è inevitabile la domanda: “Ma noi cosa possiamo fare?”. Certamente non siamo in grado di portare fuori dall’accampamento tutti gli intoccabili, innumerevoli, del mondo, ma ogni numero per quanto grande, comincia sempre da uno. “Uno” è il debole che sta vicino a noi, forse anche dentro casa, magari il genitore mentalmente invecchiato, o il figlio che non è come si desiderava che fosse; “uno” è il collega che non sa difendersi; “uno” è l’amico rimasto senza lavoro; “uno” è il senzatetto che ha bisogno di una coperta; “uno” è anche l’associazione che ha bisogno del nostro contributo per raggiungere gli intoccabili al di fuori del nostro giro e delle nostre possibilità; “uno” è stare sempre dalla parte di chi ha compassione per i “lebbrosi” e contribuisce come può e per quanto può a creare una società che non spinga nessuno fuori dell’accampamento. Questo è il miracolo a cui nessuno può negarsi, pensando che sia al di fuori delle proprie possibilità e responsabilità.

Per la gloria di Dio

Come vivere così lo indica San Paolo: «Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio». “Fare tutto per la gloria di Dio? Ma questa è la strada più veloce per dimenticare le persone chiuse nell’accampamento, per liberare le quali serve tutt’altro che preghiere e incensi”. Sarebbe così, se Dio e l’uomo fossero concorrenti, per cui: o da una parte o dall’altra. Ma non è così. Dio non ha bisogno che noi gli diamo gloria, grandezza e bellezza, perché le ha già in maniera tale che a esse non può essere aggiunto alcunché. Dare gloria a Dio significa manifeste la sua grandezza e bellezza in tutto ciò che pensiamo, diciamo, facciamo. «La gloria di Dio è l’uomo vivente», dice sant’Ireneo. E non c’è niente che la offuschi più di figli considerati impuri e costretti starsene fuori “dall’accampamento”.


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