NO alla compagnia del ricco stolto

XVIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C - 2019

Il vangelo non condanna la ricchezza, ma l'uso distorto e dissennato dei beni.

I brani della parola di Dio di questa domenica sono una sequenza che, se non la si ascolta con attenzione, può portare a conclusioni spiritualmente negative. Analizziamola!

Inizia il Qoèlet: «Vanità delle vanità, tutto è vanità»; «quale profitto viene all'uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole?».
Cioè: che senso ha darsi da fare se poi tutto svanisce e finisce?

Continua san Paolo ai Colossesi: «Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra». Le cose della terra, cioè mangiare, vestirsi, lavorare, divertirsi...

Termina il vangelo. All'uomo che si è dato da fare per moltiplicare i suoi raccolti e, desideroso di goderseli, esclama: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti!». Dio dice: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?». Cioè, a cosa ti è servito darti da tanto fare?

Con questi messaggi, dopo aver mestamente riconosciuto con il salmista che i nostri anni «sono come un sogno al mattino, come l'erba che germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca», verrebbe spontaneo concludere: "Perché darsi da fare? Meglio starsene tranquilli e riposati aspettando che arrivino le cose di lassù". In effetti è accaduto spesso che questi brani siano stati interpretati e predicati come una condanna della ricchezza, sintetizzata dalla sentenza: "i soldi sono lo sterco del diavolo", con la conseguente sottovalutazione dell'attività e dell'impegno.

Ma la parola di Dio sulla ricchezza e sulla attività umana può essere interpretata così? No. Se fosse così, non si spiegherebbe perché i Dodici avevano una "cassa" per le spese quotidiane e per aiutare i poveri (Gv 12,6); perché c'era un gruppo di donne «che li servivano con i loro beni» (Lc 8,3). Non avrebbero nemmeno senso le straordinarie parabole dei talenti da trafficare e della vigna da lavorare invece di starsene oziosi. Se si dovesse vivere, cercando "le cose di lassù", che senso avrebbe il perentorio invito di Paolo: «Chi non vuole lavorare, neppure mangi» (2 Ts 3,10)?
Per farla breve, cosa sarebbe la vita che Dio ci dona e per la quale non dobbiamo mai smettere di ringraziare e lodare il Creatore, se essa fosse "vanità", niente, e venisse passata pigramente, aspettando che sfiorisca come l'erba del campo?

«Vanità delle vanità: tutto è vanità». Cosa significa? L'affermazione di Qoèlet non vuol dire che tutto è inutile, perché Dio non può averci donato il niente, un pacco vuoto. Tutto è vanità perché, come attesta in maniera indiscutibile la nostra esperienza, tutto passa, tutto è transitorio. La stoltezza sta nel non prenderne consapevolezza e vivere come se durasse per sempre.

Il protagonista della parabola non è stolto perché è ricco. Diventa stolto quando, di fronte al raccolto abbondante che viene ad aggiungersi ai beni che possiede, si illude che la sua vita dipenda dai magazzini stracolmi.

La stoltezza dell'uomo ricco - e nostra quando entriamo nella sua compagnia - è credere di poter vincere la "vanità" con magazzini che, stracolmi quanto si vuole, sono inevitabilmente ad essa sottomessi.

Cosa è la saggezza? È chiedere al Signore di insegnarci a "contare i nostri giorni" per "acquistare un cuore saggio" che non ci faccia chiudere gli occhi davanti alla realtà di quello che è la vita, e di chi siamo noi.


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