Non restiamo a guardare il cielo

Ascensione del Signore - Solennità - Anno C - 2019

Salendo al cielo, Gesù lascia le consegne a noi che rimaniamo sulla terra.

La scena, così come è descritta, è bellissima. Non per nulla tanti pittori si sono esercitati a rappresentarla: Gesù sale verso il cielo popolato da angeli festanti. La parola di Dio, però, non è un quadro da ammirare, ma un messaggio da vivere. Per accoglierla è necessario andare al di là di quello che appare a prima vista. Gettiamo, allora, lo sguardo più in là dei pittori.

Il cielo verso il quale Gesù sale non è l'arco azzurro sopra le nubi, ma la dimensione divina della quale si era "svuotato" (Cfr. Fil 2, 5-8) per farsi in tutto uguale a noi, eccetto il peccato. Sceso tra noi, ha vissuto come noi sottomesso al tempo e allo spazio. Per andare dalla Giudea in Galilea doveva camminare, fermandosi "affaticato per il viaggio", a chiedere da bere alla Samaritana presso il pozzo di Giacobbe; e alla sera, come tutti, doveva aspettare che arrivasse l'alba del nuovo giorno.
Con la risurrezione la sua umanità è entrata nella dimensione divina, al di fuori dello spazio e del tempo, come scrive l'autore della Lettera agli Ebrei: «Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore». Ecco perché, nel lasciare i suoi discepoli può affermare: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Tutti i giorni. In ogni tempo. Dovunque.

È per questo che i "due uomini in bianche vesti" scuotono i discepoli rimasti incantati a fissare il cielo, come chi vede partire un amico: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo». Gli "uomini di Galilea" capirono e obbedirono. Tornati a Gerusalemme "con grande gioia", lodando Dio nel tempio, aspettarono la "potenza dall'alto", poi «partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» (Mc 16,20).

Ci vorrebbero anche per noi "due uomini in bianche vesti" – e anche più di due! - per scuotere e convincere anche noi a non starcene a fissare il cielo. Non perché non è necessario "lodare Dio nel tempio", cioè pregare e avere un rapporto personale con lui, ma per non farci dimenticare la consegna: la testimonianza: «di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra», e l'annuncio: «nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme».

Siamo preoccupati per la parola di Dio che rimane chiusa dentro le chiese, dove viene ripetuta, non sempre in maniera efficace, a gente che l'ascolta come cosa risaputa, mentre fuori viene sovrastata dalla predicazione martellante dell'individualismo materialista. A questa preoccupazione, però, rispondiamo con la vecchia convinzione che ci devono pensare i preti. Non può continuare così.

Dal Concilio in poi, i papi hanno esortato tutti i cristiani, preti e laici, a diventare testimoni ed evangelizzatori. Papa Francesco non smette mai di spingere a "uscire" per portare il vangelo nelle "periferie". Ma le esortazioni fanno fatica a trovare risposta, sia nei sacerdoti, preparati a fare la predica in chiesa e il catechismo ai bambini, ma non a "predicare dappertutto"; sia nei cristiani laici, anche in quelli buoni e pii, ma per lo più ancora convinti che la predicazione sia un problema dei preti.

Predicare a tutti i popoli... Dobbiamo, forse, andare in Cina, in Africa, in Arabia Saudita a predicare il vangelo, come hanno fatto i discepoli in quel tempo? Non occorre, perché "i popoli" ce le abbiamo molto vicini. Sono i figli, i nipoti, i coinquilini, gli amici, i colleghi di lavoro, la gente che incontriamo per strada, sull'autobus, al bar.


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