Pecore sì, ma dell'ovile di Gesù

IV Domenica di Pasqua - Anno A - 2023

La vocazione è una vera chiamata se diventa missione.

La similitudine del Buon Pastore, nonostante dia sempre un po’ fastidio paragonarsi alle pecore, divenne familiare già nel terzo secolo nella comunità cristiana, sia negli scritti che nelle immagini. A prevalere, però, fu il Buon Pastore della parabola di Luca, che va a cercare la pecora smarrita e la riporta all’ovile sulle spalle, essendo il personaggio più suggestivo e accattivante. Il Buon Pastore dell’evangelista Giovanni, che la liturgia ci propone sempre in questa quarta domenica dopo Pasqua - e per questo motivo scelta da Paolo VI per celebrare la Giornata Mondiale di Preghiera per le vocazioni -, richiama il “pastore” come “re” del profeta Ezechiele, che ha cura del suo popolo ed è perciò severo con i “pastori” (le autorità civili e religiose) che invece di curare le pecore le sfruttano a loro vantaggio, provocando il suo sdegno, tanto da fargli decidere di toglierli di mezzo: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia» (Ez 14,15-16). Un pastore buono e premuroso, quindi, che dà sicurezza con «il suo bastone e il suo vincastro». Bastone e vincastro… come le parole di Gesù: «Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti».

Gesù pastore e porta dell’ovile

Il brano che la liturgia proclama oggi (come tutti i testi di Giovanni) non è di comprensione immediata, anche perché la sezione proposta dal lezionario si ferma prima che Gesù dichiari esplicitamente: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore», a favore dell’altra similitudine: «io sono la porta delle pecore». Così noi entriamo in difficoltà: pastore o porta? Benedetto XVI, nel suo Gesù di Nazaret scrive: «Questo passo si può comprendere forse solo nel senso che qui Gesù dà il criterio per i pastori del suo gregge dopo la sua ascesa al Padre. Se uno è un vero pastore, lo dimostra quando entra attraverso Gesù inteso come porta, perché così Gesù resta, in sostanza, il pastore - a lui solo appartiene il gregge». L’interpretazione di Papa Ratzinger è convincente e stimolante. Chi sono infatti per noi i pastori del gregge “dopo di lui”? La risposta che scatta immediata è quella sulla quale ci siamo adagiati da secoli: “Sono il Papa, i vescovi, i sacerdoti, magari anche i religiosi”. Oggi la situazione della Chiesa sta dimostrando che questa mentalità ci ha portato nella situazione che Papa Francesco chiama: “il clericalismo”, cioè il clero comanda e i fedeli laici eseguono, e se vogliono contare qualcosa devono diventare come il clero, cadendo - sempre Papa Francesco - nel “clericalismo a rovescio”.

Con il Concilio Vaticano II è partito l’arduo cammino per riscoprire una verità fondamentale: i battezzati in Cristo sono tutti sacerdoti, re (pastori) e profeti, rimasta per vari motivi trascurata e a volte ignorata. Compiti di natura e di responsabilità diversi, certamente, ma il dono del Risorto è per tutti. Questa è la “sinodalità” che la Chiesa sta cercando in questi anni anche con il Sinodo indetto da Papa Francesco (2021-2024), per far sì che ogni credente si senta “pastore” in Cristo, con la partecipazione all’annuncio del Vangelo e alla vita della Chiesa con le modalità che lo Spirito continuamente suscita.

La porta dell’ovile è Gesù

Gesù è perentorio: «Io sono la porta delle pecore». Tentare di entrare da un'altra parte significa essere ladri e briganti che non cercano il bene delle pecore, ma il proprio tornaconto. Però, cosa significa entrare dalla “porta” Gesù? Vuol dire avere con lui un rapporto di fede intimo che ci fa riconoscere la sua voce prima delle sue parole, come quando al telefono riconosciamo un amico dalla sua voce prima che dica chi è; significa camminare davanti alle pecore come testimonianza che non impone, ma indica la strada e affida le scelte alla responsabilità personale; impegna a fare ciò che è nelle nostre possibilità, affinché le pecore «abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza», sempre attenti alla tentazione di «rubare, uccidere e distruggere».

Nei versetti del brano che non ascoltiamo in Chiesa, ma che facciamo bene ad andare a leggere, Gesù ci offre la sua sintesi: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore». Se non la vita, noi “sue pecore e in lui pastori” dobbiamo almeno mettere a disposizione mente, cuore e mani.


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