Smascherare il fariseo che è in noi

XXX domenica del Tempo Ordinario - Anno C - 2022

Battersi il petto davanti a Dio non umilia ma esalta.

Il messaggio della parabola del fariseo e del pubblicano non ha bisogno di interpretazioni, perché è Gesù stesso a dichiarare di raccontarla «per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». Essa, perciò, chiede di verificare se si ha o meno questa intima presunzione; cioè se ci indentifichiamo nel fariseo o nel pubblicano.
Attenzione alla risposta che non è facile. D’istinto, data la cattiva fama che i farisei si portano appresso proprio per le sonore reprimende di Gesù, viene da dire: “Con il fariseo no”. È antipatico, pieno di vanagloria e supponenza. Prega Dio non “per ringrazialo”, come dice a parole, ma per presentargli il conto del suo non essere «come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri». E neppure come “quel pubblicano”, che non dovrebbe stare nemmeno lì, nel Tempio, perché, contaminandosi con i pagani, non rispetta la Legge e quindi è impuro.

Come il fariseo no!

“No, come il fariseo no”… Anche se far presente devotamente e piamente a Dio l’impegno e la fatica per comportarsi come egli comanda, non è sbagliato. È stato Gesù stesso ad assicurare che i buoni entreranno nel regno preparato per loro dal Padre suo, mentre i cattivi saranno gettati nel «supplizio eterno» (Mt 25, 31-46), «dove sarà pianto e stridore di denti» (Mt 13,50).

E come il pubblicano?

Se non ci si riconosce nel fariseo, l’alternativa è indentificarsi nel pubblicano che si batte il petto, implorando umilmente: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Anche se, insomma, proprio come lui… Naturalmente nessuna difficoltà a chiedere perdono e a batterci il petto. Ci siamo stati abituati fin da bambini e lo chiediamo continuamente nella Messa, nella confessione, nella preghiera, sempre! Però, per grazia di Dio, non siamo né ladri, né ingiusti, né adulteri. I nostri peccati sono arrabbiature, mancanza di pazienza, bugie a fin di bene, parolacce, magari anche risentimenti nei confronti di chi ci ha fatto dei torti, ma non rancore o odio, per carità; sono debolezze, non malvagità, come se ne vedono tante in giro.
Per noi ci vorrebbe un terzo personaggio diverso sia dal fariseo che dal pubblicano che, senza essere presuntuoso, stia davanti a lui sia in piedi, perché si è comportato bene, sia con gli occhi bassi, perché non sempre è riuscito a eseguire i suoi comandi. Ma questo personaggio non c’è. Il “un po’ di qua e un po’di là” non rientra assolutamente nei pensieri di Gesù che chiede sempre scelte decise, il “sì quando è sì, e il no quando è no”.

Il perdono non soltanto un’invocazione

Per essere “giustificati” come il pubblicano, è necessario che egli non sia soltanto una indicazione morale, o una preghiera, ma una scelta di vita. Vivere battendosi il petto e proclamando “Dio, abbi pietà di me peccatore” non significa rassegnarsi una vita “piagnona”, lamentosa, triste, preoccupata di accaparrare il punteggio giusto da presentare Dio – soluzione che ha allontanato tantissima gente dalla fede – ma l’esatto contrario, cioè vivere riconoscendo la grandezza di Dio, controllando e vincendo l’istinto a rifiutarne la paternità, sempre in azione da quando nel giardino dell’Eden l’ingannatore sibilò: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3, 4-5).

I farisei – di quel tempo e di oggi – presumono di conoscere il bene e il male, perciò sono essi a deciderlo. Il risultato: allargamento di spazio alla presunzione, alla falsità, alla volgarità, al rovesciamento dei valori.
I pubblicani – di quel tempo e di oggi – lasciano carta bianca a Dio, accettandone il giudizio, e si inchinano davanti alla sua grandezza, bontà, bellezza, impegnandosi umilmente ad accoglierla e diffonderla, non per fargli un piacere, ma perché è un bene per noi, eseguendo così la consegna di Gesù: «quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17,10).


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