Una fede "vino buono"

II Domenica del tempo Ordinario - Anno c - 2016

"Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora". La risposta di Gesù alla madre, per quanto le traduzioni cerchino le soluzioni più "soft", sorprende.

Per capirla, forse può aiutarci immaginarla come il risultato di sereni dialoghi nei quali, durante i lunghi anni della normalità di Nazaret, la madre chiedeva al figlio, annunciato come "grande e chiamato figlio dell'Altissimo", erede definitivo del "trono di Davide suo padre", quando tutto questo si sarebbe manifestato, ottenendo sempre la stessa risposta: "Avverrà quando sarà la mia ora".

Se fosse questa la spiegazione, le parole della madre ai servitori: "Qualsiasi cosa vi dica, fatela", sarebbero quelle di una madre che, conoscendo chi è quel figlio, con santa impazienza lo incoraggia a rompere gli indugi per intraprendere decisamente la propria missione.

Ad ogni modo, qualsiasi ne siano stati i motivi, l'iniziativa della madre e la risposta del figlio, trasformano quella che doveva essere una semplice e gioiosa festa di nozze paesane in una scena grandiosa: l'amicizia tra Dio e le sue creature, rotta da Eva che incoraggia Adamo a mangiare il frutto proibito, si ricompone. Adesso la "donna" (così la chiama il figlio), la nuova Eva, incoraggia il nuovo Adamo, a realizzare la promessa del Creatore all'umanità: "Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo".

Questo avviene con il primo dei segni (quelli che noi chiamiamo miracoli) che Gesù compie per manifestare la sua gloria. Un segno assolutamente diverso da quelli dei "santoni"di tutti i tempi", che scelgono per la loro entrata in scena luoghi e modalità grandiose e seriose. Qui è tutto fuori schema. Il luogo è una festa di nozze paesana, e il segno consiste nell'inondare di vino buono (una quantità enorme: "sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri"!) gli invitati.

Notare! Non di pane e companatico, cioè non di cose necessarie, ma di vino. Cioè un lusso, un extra, e in abbondanza tale da pericolo di coma etilico per tutti i commensali.

Perché il vino?

Perché nella simbologia biblica il vino significa la gioia ("Che vita è quella dove manca il vino? Fin dall'inizio è stato creato per la gioia degli uomini". Sir, 31,27). Tutto è straordinariamente innovativo e originale. Gesù rivela di essere venuto per riportare gli uomini all'amore sponsale con il Creatore, che aspettava da sempre questo ritorno: "come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te", non tra le colonne austere del tempio, ma dentro le mura di una casa; non durante un'austera liturgia penitenziale, ma durante una festa di nozze.

Ma qual è il rapporto tra ciò che è accaduto a Cana di Galilea e il nostro oggi? Qual è il messaggio per noi? Ce lo facciamo ricordare da papa Francesco: "Un cristiano senza gioia non è cristiano" (omelia a Santa Marta, 15/05/2015).

Oggi, quando la cultura dominante vorrebbe gettarsi dietro le spalle il messaggio di Gesù, come una delle tante disgrazie che hanno afflitto l'umanità, il nostro compito è testimoniare una fede gioiosa, una fede da innamorati, che dona alla vita la gioia che il pane e il companatico (i beni materiali) non sono in grado di assicurare. "I cristiani annacquati, che sembrano il vino allungato" come afferma ancora papa Francesco (Angelus del 31/08/2014) non servono più. Una fede triste e spenta, portata come il peso di pratiche fastidiose e di doveri morali ingombranti, non serve più.


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