Vivere sull'uscio

XIX domenica del Tempo Ordinario - Anno C - 2022

Scegliere bene il tesoro dove mettere il cuore.

Il Vangelo di questa domenica ci propone l’identikit del discepolo, cioè del “cristiano” – la precisazione è necessaria perché non sempre è chiaro che discepolo e cristiano sono la stessa cosa – con una parabola un po’ fastidiosa per la nostra cultura buonista per la quale sentir parlare di servi e padrone è quasi insopportabile. Superato, però, questo piccolo scoglio, l’immagine del cristiano come colui che vive sull’uscio aspettando il Signore è molto bella, suggestiva e comprensibile. L’immagine infatti richiama una delle esperienze umane più profonde e desiderabili. Chi non ha mai vissuto sull’uscio, aspettando un amico, con la trepidazione di sapergli offrire l’accoglienza più bella possibile? Il cristiano è una persona che vive aspettando il Signore, colui che gli ha affidato la vita da curare, da valorizzare, da riconsegnare, senza mai illudersi di esserne diventato padrone, e perciò fuorviata a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi. Si può arrivare a dire che il cristiano è un’attesa attenta e operosa, sempre con le luci accese e le vesti strette ai fianchi.

Un’ora che è sempre

Gesù nella sua parabola esorta a essere sempre pronti perché «nell’ora che non immaginate», «come un ladro», «senza preavviso», viene il Figlio dell’uomo. Qual è questa ora che sfugge ai nostri calcoli e al nostro controllo? Spesso è stata intesa (e viene intesa) come quella in cui siamo chiamati a riconsegnare la vita, sperando di non ricevere “molte percosse” per non aver disposto e agito secondo la sua volontà. Questa interpretazione non è sbagliata, ma riduttiva e anche un po’ angosciante, perché stare sempre sull’uscio ad aspettare il Signore che viene per l’incontro finale a riprendersi la vita che ci ha consegnata non può non creare ansia e tristezza. Ma non è così.
Questa ora è sempre. Il Signore viene continuamente, ogni minuto, in ogni persona, in ogni decisione, in ogni azione della nostra giornata. Viene nei momenti di salute e in quelli della malattia, nelle notizie gioiose e in quelle tristi, nelle occupazioni riposanti e in quelle stancanti, nelle persone che ci rallegrano e in quelle che ci rattristano... Stare sull’uscio ad aspettarlo significa accoglierlo in tutto e in tutti vivendo secondo la sua volontà. Cioè vivendo da discepoli.

O ali o macigno

Questo vivere da servi in attesa del padrone con la preoccupazione che i pensieri, le parole, le azioni vadano incontro alla sua volontà come può non essere pesante, assillante, opprimente? Lo sarebbe, se qualcuno o qualcosa ci obbligasse a farlo. Tutto cambia se vivere così è una nostra scelta. Non per niente Gesù, prima di raccontare la parabola, prepara coloro che lo stanno ascoltando con parole chiarissime e inequivocabili: «Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore». Se vivere sull’uscio ad aspettarlo è ciò che il nostro cuore ha cercato e trovato, l’attesa è gestire non una pena ma un tesoro.

Per fede!

Cosa può dare la forza di scegliere di viere come «servi che aspettano il padrone»?. Anche le scienze umane affermano che vivere di attesa, affrontando ogni giorno come sempre nuovo, come un’altra avventura da percorrere, è determinante per non invecchiare precocemente. Ma la vera motivazione è una scelta di fede. Nella seconda lettura, l’autore non poteva essere più esplicito: «per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo…»; «per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera…»; «per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre…»; «per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco…». Soltanto per fede si può decidere di vivere sull’uscio aspettando il Signore. Per fede. Il che significa non stancarsi mai di invocarlo di portare alla fede la nostra incredulità (Cfr. Mc 9,24).


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