Fermati, leggi e pensa... con Amedeo Cencini e prova a dare uno sguardo al tuo e nostro modo di vivere questo tempo. Cosa significa scoprirsi fragili e alle prese con un mostro invisibile? Quali sono le realtà che possono naturalmente scattare in noi? Cosa c'è tra noi? Qual è la "verità" che questo strano difficile momento ci può insegnare?
Alle prese con la paura
È la prima volta. Non abbiamo mai vissuto un'esperienza così destabilizzante. Capace di cambiare i nostri stili di vita dall'oggi al domani, e di convincere un popolo di allegri indisciplinati a darsi regole da osservare insieme.
Provo a guardare il fenomeno dal punto di vista che mi è più abituale, quello psicologico. E rilevo che all'origine di tutto ciò c'è la paura, la paura della morte. Inutile girarci attorno. È l'istinto di sopravvivenza che si sente aggredito, e aggredito da un nemico invisibile e misterioso, vigliacco perché non si lascia riconoscere. Anzi, viaggia normalmente nascosto in chi ci vive accanto o in coloro con cui entriamo in contatto. Ma nessuno sa di ospitarlo... né può saperlo. Non lo sappiamo neppure di noi stessi.
E questo è quanto potrebbe bastare per ingenerare un sospetto a tappeto e vivere nel panico. È ciò che ci potrebbe far allontanare da tutti e potrebbe distruggere i rapporti.
Eppure non è quello che stiamo vedendo attorno a noi. Al contrario. Non ci siamo mai sentiti così tanto popolo e nazione; nascono un po' ovunque manifestazioni spontanee di solidarietà e condivisione, che dicono la voglia, nonostante tutto – e pur con le restrizioni del momento –, di trovarsi, aggregarsi, vivere insieme questo momento difficile, diffondendo messaggi di speranza e ottimismo. Siamo costretti a vivere nelle nostre case, e così stiamo riscoprendo l'uso del balcone come moderno luogo e strumento di comunicazione, che ci mette in contatto con gli altri, per cantare, continuare a sorriderci, e scoprirci uniti come non lo siamo mai stati. Il cuore trema, ma sappiamo fare ironia anche su quel virus che lo fa tremare...
La paura dell'altro come portatore di morte s'è trasformata in bisogno e ricerca dell'altro come compagno indispensabile in questo tratto impervio di vita. Lontani e così vicini; soli, eppur nessuno si sente solo; ci si dice giustamente di evitare assembramenti, e mai come in questi giorni abbiamo cercato il contatto e goduto di sentirci comunque in relazione, in ogni caso "insieme".
Ci sentiamo impotenti di fronte alla morte, eppure – mentre salgono e scendono impietosi i numeri di contagi e vittime in Italia e nel mondo – ci ripetiamo con insistenza: "andrà tutto bene", "ce la faremo anche stavolta"...
Siamo diventati tutti supersalutisti e ossessionati del nostro individualissimo benessere, ma mai come in questi giorni abbiamo capito che la salute è bene comune, che la mia salute dipende dalla tua, che o stiamo bene tutti insieme, compresa la terra che calpestiamo, o nessuno sta bene, nemmeno l'aria che respiriamo.
Sono solo alcune delle lezioni che stiamo imparando da questo dramma.
Ma ce n'è un'altra, immensa: gli eventi catastrofici tirano fuori dall'umanità il meglio, anzi, la sofferenza vissuta assieme ha questo potere veritativo, perché ci fa sentire più vicini al senso normale delle cose e di se stessi, della vita e dell'altro (A.Romagnoli).
In tempi tranquilli si soffre da soli, vergognosi e risentiti verso chi sta bene. Il disastro generale, invece, pone tutti sullo stesso piano e abbatte ogni divisione e competizione, rende tutti più pensosi e attenti a quel che siamo, più veri e dunque anche più buoni. Ovvero, la bontà è la verità e la normalità di quel che siamo. Però questo, diceva Quarantelli, «è difficile da accettare, è una verità troppo rassicurante».
Ma lo diceva in tempi tranquilli, quando non c'era una domanda forte di verità.
Oggi, noi, in tempi difficili, proprio questa è verità che stiamo (ri)scoprendo.
Il Sinodo dell'ottobre 2018 è stato un evento nuovo e inedito, soprattutto per lo spirito di vera e propria sinodalità che ha animato i lavori dell'incontro vaticano, per il ruolo significativo dei giovani in esso, e per quell'invito fiducioso e strategico al discernimento come metodo normale di crescita nella fede del credente normale. Una fede che non si trasmette più di padre in figlio, oggi, e che dunque va scelta in libertà, e posta al centro e all'origine di ogni scelta di vita, in particolare della decisione vocazionale.