Poveri loro!

#Fermati e...

Le parole d'ordine di questo periodo di emergenza coronavirus - "restiamo a casa", "teniamoci a distanza", "laviamoci spesso le mani" - hanno messo tutti a dura prova: la paura del contagio, il panico da isolamento, le ansie per il futuro...

C'è anche un senso di "fratellanza", in qualche modo. Ci sentiamo tutti sulla stessa barca, tutti minacciati da questo nemico invisibile e micidiale: e così, per sdrammatizzare, ci siamo affacciati sul balcone alla stessa ora cantando l'inno nazionale, ci guardiamo in fila al supermercato, nascosti dalle immancabili mascherine con sguardi di complicità nella sventura comune. Eppure, neanche il virus è veramente "democratico". Perché se è innegabile che tutti, nessun escluso, ne siamo stati travolti e ci sentiamo spaesati di fronte alle imposizioni restrittive della nostra libertà, quanto questo è più drammatico per chi una casa non ce l'ha, per chi vive e dorme per strada, da sempre tenuto a distanza dagli altri?

Solo a Roma ci sono quindicimila senzatetto, che in questi mesi hanno vissuto e vivono il dramma nel dramma. Non hanno una casa in cui rifugiarsi, mentre molte mense faticano a operare seguendo le disposizioni dettate dall'emergenza e diversi dormitori sono stati costretti a chiudere. Don Pietro Sigurani, rettore della centralissima Basilica romana di Sant'Eustachio, in cui ha realizzato il Ristorante dei Poveri e la Casa della Misericordia, conosce bene questa situazione.

Don Pietro Sigurani - Intervista

  • Don Pietro, innanzitutto, com'è la situazione della Casa della Misericordia e del Ristorante dei Poveri?

La Casa della Misericordia abbiamo dovuto chiuderla per evitare l'assembramento: di solito ci vengono 200-250 persone, in spazi abbastanza stretti, e non è stato possibile tenerla aperta. Per quanto riguarda il Ristorante dei Poveri, ovviamente anche qui abbiamo dovuto adattarci alla situazione. Invece di far sedere a tavola gli ospiti, diamo loro dei cestini molto abbondanti con il cucinato, la frutta e il dolce. Lo facciamo abbondante in modo che ci sia abbastanza anche per la cena. Visto poi che in questo giorni le temperature salgono e scendono, sto cercando di far dormire qualcuno anche qui da noi.

  • Ci hanno detto "restate a casa", "mantenete le distanze". Cosa rappresentano queste parole per chi è povero, per chi una casa non ce l'ha, per chi è da sempre tenuto a distanza dagli altri?

Una sofferenza ulteriore. Fa male quando, in queste giornate di "coprifuoco", vengono fermati da qualche poliziotto o carabiniere che gli intima di tornare a casa. Uno di loro mi ha detto: «Ma io sono a casa, la strada è la mia casa». Però so che, per fortuna, ad eccezione di qualche caso sporadico, c'è molta comprensione da parte delle forze dell'ordine. La grossa difficoltà che stanno vivendo i "miei" poveri è che, non potendo girare facilmente per la città, molti di loro non riescono a venire a mangiare qui. D'altra parte, le leggi sono leggi e, in questo momento, sia per la loro che per l'altrui sicurezza, vanno rispettate. Sul rischio di contagio, uno di loro scherzando mi ha detto: «Ma noi siamo abituati a tutti i virus del mondo, siamo "vaccinati" naturalmente. Il coronavirus non ci fa paura».

  • Secondo te, la nostra città, Roma, come ha risposto a questa emergenza nell'emergenza?

C'è stata grande attenzione, ma anche la coscienza che non si può fare tutto e arrivare a tutti. Oggi, come ieri, non riusciamo a eliminare la piaga delle persone che sono costrette a vivere e a dormire per strada. Spero che questa emergenza sia servita a risvegliare le coscienze di tutti e ad attivare in modo più efficace le istituzioni.

  • C'è anche il problema delle persone, soprattutto anziane, che vivono da sole, e che ora sole lo sono ancora di più.

Per fortuna la Caritas, la Croce Rossa e tante associazioni più o meno conosciute sono attive su questo fronte. Ma, di certo, va fatto molto di più.

  • Mi viene in mente una tua frase, che mi hai ripetuto molte volte e che ritroviamo nel libro "Poveri noi!": «Per celebrare l'Eucaristia ci vuole l'assemblea». Cosa significa per te dover celebrare, in questi giorni, senza assemblea?

Il mio pensiero è semplice e netto, anche se – me ne rendo conto - controcorrente: non si dovevano chiudere le Chiese. Se sono stati lasciati aperti i supermercati, o le tabaccherie, si potevano tenere aperte anche le chiese. Era sufficiente, con tutte le precauzioni del caso, organizzarsi, ma non siamo stati capaci di farlo. Eppure non sarebbe stato difficile: così come stanno facendo nei supermercati, sarebbe bastato un "servizio di smistamento". Penso a una cattedrale, al Vescovo che celebra: anche una piccola assemblea, anche solo 50 persone, rappresenterebbero il "segno" della celebrazione. Noi viviamo di segni: segni che, soprattutto in momenti come questo, sono fondamentali. L'importante è che ci sia l'assemblea, perché la celebrazione eucaristica non è una celebrazione privata. Non è sufficiente dire "facciamo la comunione spirituale": la comunione è sacramentale, è una res, un fatto, un evento, si tocca, si mangia, si beve.
Peraltro, fammelo dire: tenendo le chiese aperte, non credo che avremmo assistito alle file che vediamo ogni giorno davanti ai supermercati!
A me hanno impressionato molto le parole di un ministro francese che, nell'elenco delle attività non necessarie da chiudere ha messo vicino i ristoranti e i caffè con le chiese. Ma come si fa a dire che non è necessaria la chiesa, che non sono necessari i luoghi di culto?

  • Tu personalmente come stai vivendo questo momento? Scusa se te lo dico, ma non essendo più un giovanotto, fai parte della categoria "a rischio". Hai paura?

No, non ho paura. La mia età mi mette nel rischio, ma il mio servizio ai poveri mi mette nella serenità.

 


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