Quanto dolore

#Fermati e...

Fermati, leggi e pensa... con Rossella Semplici, psicologa clinica. Leggi, e fai riposare il tuo cuore; lascia che il dolore di questi mesi di pandemia scorra, tracimi, fertilizzi il futuro. Il Coronavirus ci ha resi tutti uguali nella fragilità, ma anche nella possibilità di trasformare il nero della disperazione e della morte in una nuova alba di luce per l'umanità.

«Sto bene, grazie. Ma quanto dolore!»
È la frase che mi ha scritto un amico.
Ha risuonato per un giorno intero "quanto dolore".
È come se non fosse più in grado di sopportarlo. In questa situazione pandemica, il numero dei morti, come si è morti, come si è stati seppelliti costituisce quell'eccedenza di dolore, che tracima fuori dalla nostra capacità di sopportazione.
Possiamo paragonare l'ondata di dolore allo straripare del fiume Nilo che con il suo limo fertilizzava la terra. La sovrabbondanza porterà il concime là dove non era mai arrivato, così speriamo che faccia nelle parti desertificate della nostra umanità.

Quel limo era nero come la morte.
Allora il dolore che abbiamo provato e continuiamo a provare, anche all'inizio di questa incerta fase 2, dovrebbe fertilizzare la nostra capacità di accompagnare il morente, non riducendo l'approccio alla medicalizzazione; lo strazio di coloro che non hanno potuto stringere la mano alla persona amata nel trapasso deve aiutare a percorre i sentieri che rievocano l'idea di morte, senza sbarrarne l'accesso come spesso facciamo noi che viviamo nelle società super tecnologiche, super finanziarie, super veloci, super inquinanti.

Allora il dolore di oggi dovrebbe portare a riflettere con consapevolezza sull'eutanasia; è fondamentale riaffrontare il tema inserendo il concetto di non proprietà della propria morte. La morte e la vita non possono essere considerati come oggetti da possedere o da scartare. Devono tornare a occupare l'originario posto: stati dell'essere.

Allora il dolore di oggi dovrebbe fertilizzare il valore del funerale come restituzione della memoria del defunto alla comunità, come aiuto nel distacco dalle persone amate, come collante solidaristico tra le persone rimaste. Un rito che riannoda i legami psico-socio-spirituali del singolo e della comunità con il defunto e della comunità al suo interno. Un serbatoio di resilienza spesso sottovalutato o sconosciuto. Ossia la capacità di trasformare l'annichilimento del dolore in fioriture di orizzonti, ideali, affetti, comportamenti.

Allora il dolore di oggi dovrebbe posarsi sulle frange più estreme dell'interesse personale, dell'avidità della "roba", come scriveva Pirandello, del primato del fare sulla riflessione.
Quel nero arrivato oltre i confini ristretti dell'essere di oggi, attiverà tutte quelle parti che gli stili di vita, la filosofia, i valori dell'occidente hanno desertificato.

Allora quanto dolore per sperare in un cambiamento migliorativo dell'essere nella sua integralità, della comunità e dei rapporti tra tutti i membri della famiglia umana, senza dominazioni, prepotenze economiche, culturali, religiose.
Il coronavirus ci ha resi tutti uguali nella fragilità e nella possibilità di trasformare il nero in un'iniziale striscia di luce.

 


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