Il presbiterio

Fraternità da coltivare

Il presbiterio, termine che deriva dal greco πρεσβυτέριον, indica il collegio degli anziani e richiama un altro termine: presbitero, anch'esso derivante dal greco πρέσβυς che significa anziano.

Per la verità il termine presbiterio è più comunemente usato per indicare la parte della basilica cristiana riservata al Vescovo e al clero, situata in fondo alla navata centrale e terminata dall'abside.
L'Autore ha scelto, come titolo del suo saggio, questo termine nel suo significato più pregnante, per parlare di una realtà che gli sta molto a cuore, appunto il collegio degli anziani nella vita della Chiesa. E il presbiterio nella vita della Chiesa sta proprio a indicare il clero che, in una diocesi, presta aiuto al Vescovo nel governo della diocesi stessa. Un gruppo qualificato di persone non necessariamente anziane, ma allenate a sentire il servizio agli altri come scelta fondamentale e che, con diverse esperienze, con diverse sensibilità e capacità, contribuiscono alla vitalità della porzione di Chiesa loro affidata; in pratica, quelli che noi chiamiamo preti. Per utilizzare una metafora usata dall'Autore e ben espressa dalla copertina del libro si può immaginare un'orchestra che esegue una sinfonia. Il presbiterio, quindi, è un'orchestra e i presbiteri gli orchestrali!

È l'Autore stesso a precisare: «La differenza tra "presbitero" e "presbiterio" sembra sottile, ma è sostanziale. Il prete non si forma, non cresce e non vive il suo ministero "da solo". Non è un eremita, non fa l'imprenditore del sacro e non opera sganciato da tutto e da tutti. Il presbitero si forma dentro il presbiterio, e fin dal seminario questa fraternità e comunione sono da imparare e costruire... Sempre. È una scuola dolce e difficile al contempo». Marco D'Agostino precisa anche che non si tratta di una sinfonia eseguita alla perfezione una volta e basta! No, ma piuttosto molte sinfonie, sempre da provare e riprovare insieme, perché si tratta di... far suonare la vita e la vita, si sa, non è mai uguale a se stessa. Fuor di metafora, si tratta di lavorare insieme, di condividere pesi, gioie, piccole o grandi sconfitte e piccoli o grandi traguardi. Soprattutto si tratta di sostenersi a vicenda, scambiare esperienze e tentativi pastorali sempre faticosi da costruire.
In questo saggio l'Autore cita un intervento di Papa Francesco commentandolo: «Papa Francesco ha sottolineato come, per un sacerdote, sia "vitale" ritrovarsi in un presbiterio. Questo significa che senza quella "i" il presbitero muore. Se dimentica il suo legame esistenziale con il Vescovo – ed è possibile! – e con i fratelli preti, il suo ministero è sterile. Senza fecondità alcuna. "Questa esperienza", ha continuato Francesco in quell'intervento, "libera dai narcisismi e dalle gelosie clericali; fa crescere la stima, il sostegno e la benevolenza reciproca; favorisce una comunione non solo sacramentale o giuridica, ma fraterna e concreta"».
Che nella vita dei preti la solitudine sia spesso una compagna difficile da gestire lo sanno tutti; del resto tutti facciamo i conti, prima o poi, con la solitudine e per certi versi è pure provvidenziale, ma nessuno è fatto per la solitudine. Lo scambio di idee, di tentativi riusciti, di progetti; uno sguardo benevolo, che comprende le fatiche e le debolezze altrui perché conosce le sue; una stretta di mano che fa sentire di non essere soli: tutto questo è possibile, sostiene l'Autore, nel presbiterio, questo luogo della vita in cui i preti possono incontrarsi, discutere, dare e accogliere idee e consigli. Magari anche arrabbiarsi, perché no?
L'Autore, don Marco D'Agostino, è presbitero della diocesi di Cremona, una delle diocesi, insieme a Bergamo e Brescia, più colpite dalla prima ondata del Covid e a questo dolorosa esperienza fa riferimento, proprio parlando del ministero sacerdotale in quel periodo dolorosissimo.

«Nella pandemia il mondo si è scoperto più fragile, più piccolo, più bisognoso ma, nella sua debolezza, ha sentito anche un anelito all’unità. Ciò che non si sarebbe mai deciso in uno stato di salute e di normalità, si è dovuto farlo, perché si aveva bisogno gli uni degli altri. Siamo rimasti «distanti» fisicamente ma, nel lavoro, a scuola, in parrocchia, nel presbiterio, la rete ci ha messo in collegamento gli uni con gli altri. A un certo punto abbiamo avuto bisogno di parlare e di vedere qualcuno... Abbiamo percepito la necessità di lavorare insieme perché siamo un corpo, una famiglia... preti aiutati e guidati dal sacramento della paternità che il Vescovo esercita su questa particolare famiglia, il presbiterio, come su tutta quanta la comunità diocesana, nella Chiesa universale... Dopo un periodo così difficile come quello del Covid-19 e non sapendo con precisione e certezza cosa ci stia davanti, sentiamo la necessità di ripartire. Non a caso. Non sperando sul nulla. Ma radicati e ben piantati sulla roccia dell’ascolto della parola di Dio (cfr. Mt 7,24-25), perché la casa non cada su se stessa e la sua rovina diventi più grande. Senza perdersi d’animo, scoraggiarsi, ma provando e riprovando. Senza stancarsi».

Le pagine di questo libro sono cariche di empatia verso i preti, che sono gli interlocutori privilegiati, ma vale la pena prenderlo in mano. La scrittura è piana, la lettura piacevole e c'è la sorpresa - per chi prete non è - di sentire il prete più vicino, più vulnerabile, in definitiva più uomo.
Il che non guasta!

Leggi un estratto del libro


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