Il cammino di Santiago nel diario di pellegrinaggio di una mamma col suo bambino di otto anni: da percorso fisico, faticoso e pieno di imprevisti, a viaggio interiore verso la scoperta di sé e delle cose essenziali.
Fuori, la luce lattea del mattino stentava a distendersi sulla valle, e io di certo non avevo voglia di aprire gli occhi, né tanto meno di scendere dal letto, svegliare Johann e dirgli: «Ciao, bimbo mio! Hai dormito bene? Sai dove andremo l'anno prossimo? A Santiago a piedi!» Invece è proprio quello che ho fatto. Milioni di pellegrini hanno percorso quel Cammino, se ce l'hanno fatta loro, mille anni fa, ce la faremo anche noi!
I sanpietrini sono lucenti di pioggia e le case, queste casette bianche dalle imposte dipinte di verde scuro o di rosso mattone, quanti pellegrini avranno visto passare, prima di noi? La commozione mi chiude la gola, siamo davvero in cammino! Mille pensieri si affastellano nella mia testa, nessuno con un senso compiuto. Sono abbozzi, immagini, sensazioni contrastanti. Mi sento sull'orlo di... no, non di un precipizio, non c'è paura dell'inevitabile caduta. È piuttosto l'emozione di toccare un sogno con le mani, camminarci dentro, sentirmi viva e totalmente presente all'istante più speciale del mondo, proprio questo, il cui ritmo è marcato dai nostri passi sul selciato scivoloso. E queste gocce, saranno pioggia o lacrime? Sorrido.
In fondo alla via, in fondo al paesello, ecco la Porte de Saint Jean: antiche pietre disposte a forma d'arco, un arco che ci lancia come frecce sorridenti verso la salita più ripida di tutto il Cammino!
Profumo di erba fresca e bagnata. Il cammino si snoda sotto i nostri passi. Sento la ghiaia, i sassi aguzzi, l'improvviso cedimento del tratto più fangoso. Sostiamo un momento, qualcuno ha tracciato un Ultreya! Nella mota al lato del sentiero. Allora scriviamo con la punta del bastone il nostro nome nella terra, labile traccia di speranza, volontà di marcare il nostro passaggio di pellegrini. Lo scriviamo a mo' di messaggio, sapendo che qualcuno ci segue col pensiero, ci rincorre da lontano. Probabilmente non sappiamo neppure chi è, magari cammineremo assieme solo per un breve tratto – qualche ora, un giorno, o solo il tempo di dirsi «Buen Camino!» –, forse non ci parleremo mai. Ma vogliamo lo stesso lasciare il nostro nome, un saluto. Perché ormai lo abbiamo capito: questo Cammino è fatto di passi che si incrociano, di sorrisi autentici e profondi, paradossalmente scambiati tra perfetti sconosciuti che però si riconoscono immediatamente fratelli dallo sguardo teso all'orizzonte prima ancora che dalla conchiglia, dallo zaino o dal bastone.
Se fosse un film, adesso si fermerebbe la musica, si sentirebbe solo il silenzio perfetto che ti si spalanca nel cuore quando arrivi lì, dopo una tappa di quaranta chilometri, dopo quaranta giorni di Cammino, dopo un milione e ottocentomila passi con tuo figlio per mano.
Siamo arrivati a Santiago. Ce l'abbiamo fatta. Sono le undici e quaranta, stiamo piangendo di gioia, abbracciati davanti alla Catedral. Non ci sembra vero. La Plaza del Obradoiro è tutta per noi, nessun altro pellegrino, nessun turista, nessuno. Sembra un sogno, davvero. Chiamiamo a casa, è la telefonata più bella di tutta la nostra vita. Parole sconnesse dall'una e dall'altra parte del filo, lacrime di gioia, felicità da far scoppiare il cuore. Ce l'abbiamo fatta.
Da: Unmilioneottocentomilapassi. Io, il mio bambino e il Cammino di Santiago, di Elisabetta Orlandi, Paoline 2012.