Rosario Livatino

Per descrivere Rosario Livatino non servono parole. Per lui parlano le azioni, i decreti, le agende. Era un uomo dello Stato, un profondo conoscitore del diritto e del contesto sociale in cui tale diritto veniva applicato. Coglieva appieno la pericolosità del suo lavoro, ma non indietreggiò. Continuò ad agire applicando la legge, sorretto dalla fede e da una convinzione: servire lo Stato, non servire chi si serve dello Stato.

Il 21 settembre 1990 il giudice Rosario Livatino viene assassinato da un commando composto da quattro killer, lungo la Statale Agrigento-Caltanissetta, mentre senza scorta si reca in Tribunale.
Le sue ultime parole, prima di morire, sono state: «Picciotti, cosa vi ho fatto?». I suoi assassini, dopo attimi di silenzio, rispondono con altri due colpi di pistola che sfregiano il viso di un giovane servitore dello Stato che ormai non avrebbe potuto né difendersi né tantomeno fuggire. Questa domanda, quasi stupita, riassume il mondo interiore di questo giovane giudice, consapevole di aver fatto solo il suo dovere di rispettare la legge e farla applicare. Non ha inveito, ma ha rivolto ai suoi assassini una domanda che raggiungerà il loro cuore.
Aveva 38 anni e già da tempo dava molto fastidio alle potenti organizzazioni mafiose; ne aveva una conoscenza approfondita e aveva impresso una accelerazione a indagini stagnanti e della cui pericolosità era consapevole. Stava, infatti, indagando su più fronti legati al potere imprenditoriale locale, alle connivenze tra famiglie mafiose e politica, per arrivare fino al traffico d’armi. Un lavoro immenso: tra il 1984 e il 1988 nella Procura di Agrigento è il magistrato che definisce più procedimenti e formula più richieste di rinvio a giudizio.

L’uomo e il credente

Rosario Angelo Livatino era nato a Canicattì il 3 ottobre 1952. Il nonno paterno era stato sindaco di Canicattì prima dell’avvento del fascismo; la sua matrice socialista e la sua coerenza non piacevano ai rappresentanti del nuovo corso politico e così il 24 ottobre 1921 fu sospeso dal Prefetto e si dimise dalla carica una settimana dopo. Fin da piccolo, quindi, il futuro magistrato ha respirato la normalità di una coerenza lucida nei confronti della società, senza esibizioni, ma di grande consapevolezza. Lo ricorderà la sua insegnante del liceo classico, Ida Abate: «All’ultimo anno si chiedeva ai ragazzi di maturità: ma tu cosa pensi di fare, adesso? Giurisprudenza, rispose Rosario decisissimo. Mi ricordo che gli chiesi: forse perché papà e anche il nonno sono laureati in Giurisprudenza? No, perché io voglio difendere la collettività».
Nel 1978, a 26 anni, presta giuramento e scrive nella sua agenda: «Sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione che i miei genitori mi hanno impartito esige». Parole che dicono da una parte la sua fede concreta, non esibita e dall’altra la fedeltà a una educazione che respira nella sua famiglia. I suoi genitori, parlando del figlio, diranno: «Era disarmato, sì, ma era armato della sua fede. Della fede nei valori, nel diritto, nella giustizia». La sua integrità non aveva nulla di bigotto e di ossessivo; era piuttosto l’espressione di una coerenza liberante per sé e per gli altri; non si lasciava condizionare da lusinghe o intimidazioni e lo sapeva bene chi, a diverso titolo, chiedeva o offriva favori, magari apparentemente innocenti.

Il giudice

L’Autore di questo libro, Roberto Mistretta, aveva già pubblicato una prima biografia su Rosario Livatino nel 2015, sempre con Paoline. Per questa nuova edizione - di cui si è sentita la necessità dopo la sua beatificazione, avvenuta il 9 maggio 2021 - l’Autore ha potuto attingere a molti più documenti, in particolare le agende del giudice, conosciute solo in minima parte prima del processo di beatificazione. Un libro, quindi, arricchito da molta e più completa documentazione che rivela aspetti poco noti della personalità di Livatino. Proprio le sue agende annuali, redatte con puntigliosa precisione, sono un osservatorio privilegiato per conoscere la sua coerenza e la sua discrezione. Da esse affiora la sua delusione per un contesto lavorativo non trasparente e pieno di gelosie e che gli fanno sperimentare l’isolamento dovuto proprio al suo senso altissimo del dovere che lo portava a non scendere mai a patti, neppure in nome dell’amicizia o della lunga conoscenza. Queste agende portano una sigla scritta in rosso S.T.D. che nulla hanno di arcano e che si ritrovano, scritte per esteso, in apertura della sua tesi di laurea: Sub Tutela Dei; la tutela non è solo una richiesta di protezione, ma piuttosto il bisogno di rimanere illuminati dallo sguardo di Dio, perché sa che un giudice deve ricevere luce per giudicare senza condizionamenti e ombre.

In questa nuova edizione sono riportati anche gli unici due interventi pubblici di Rosario Livatino. Sono due lezioni rigorose e documentate, di grande spessore e ancora attuali: Il ruolo del giudice nella società che cambia, conferenza tenuta presso il Rotary Club di Canicattì il 7 aprile 1984 e Fede e diritto, conferenza tenuta nel salone delle Suore Vocazioniste di Canicattì il 30 aprile 1986. Vale la pena leggerle per esteso: sono due lezioni di diritto, ma soprattutto di vita coerente.
Mi sembra significativo riportare in chiusura un breve passaggio dell’intervento al Rotary Club dedicato all’immagine esterna del magistrato:

«L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella conoscenza tecnica, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella trasparenza della sua condotta fuori delle mura del suo ufficio… è da rigettare l’affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato… nell’ambiente sociale nel quale vive è importante che egli offra di se stesso l’immagine di una persona equilibrata, responsabile; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva e umana, capace di condannare, ma anche di capire. Solo se il giudice realizza in sé stesso queste condizioni, la società può accettare che egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha».

Tutto questo Livatino lo ha testimoniato nella sua breve e intensa vita.


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