Quando l'azzardo è necessario

XXXII Domenica del Tempo Ordinario - Anno B - 2018

La fede in Gesù non consiste nell'offrire preghiere, riti ed elemosine, ma nel rischiare tutto sulla sua parola.

C'è grandissima preoccupazione per il giogo d'azzardo, che con il nome di ludopatia si è conquistato un posto tra le malattie sociali più pericolose, perché in grado di rovinare non soltanto chi ne è colpito, ma tutto ciò che gli sta dietro: la famiglia, la casa, l'eventuale azienda messa su con una vita di lavoro. C'è però un ambito in cui l'azzardo non soltanto non è dannoso ma necessario: la fede. Ce lo ricorda la parola di Dio di questa domenica, come sempre non con complicati ragionamenti, ma con due donne, due personaggi straordinari, che parlano più di mille parole. Due povere vedove. Povere, ma non certo di fede.

La prima. Ridotta allo stremo dalla carestia, si prepara a morire di fame, come dolorosamente dichiara al profeta Elia che gli chiede qualcosa da mangiare: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po' d'olio nell'orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo».
Il profeta non le fa la predica. Non cerca di dissuaderla. La sfida a fidarsi della parola del Signore, il Dio di Israele: «Non temere; va' a fare come hai detto. Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio».

Nei panni della vedova, noi uomini e donne credenti e praticanti, cosa avremmo fatto? Lei azzarda. Si fida. E «la farina della giara non venne meno e l'orcio dell'olio non diminuì».

La seconda. Gesù la scopre nascosta tra la folla che rumorosamente getta monete nel raccoglitore di offerte del tempio, facendo annunciare l'entità dell'offerta da un banditore, munito anche di tromba per i gettiti più sonori. Dell'offerta della povera vedova, talmente piccola: «due monetine, che fanno un soldo», che non produce assolutamente nessuno rimbombo, si accorge soltanto Gesù. Le due monetine erano «tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere», come il «pugno di farina nella giara e un po' d'olio nell'orcio» della vedova di Sarepta. Anche lei, invece di comperarcisi l'ultimo boccone, le offre a Dio.

L'evangelista non ci dice come quella "vedova povera" sia andata a finire. Possiamo scommettere che quelle due monetine hanno fatto sì che la farina della sua giara non venisse meno e l'orcio dell'olio non diminuisse.

Le due donne sono il simbolo della fede. Esse non hanno detto: "Se poi, però...", "E se non...", "Chi mi assicura che...". Niente. Hanno azzardato. Questa è la fede. Se ci confrontiamo seriamente e sinceramente con le due povere vedove, comprendiamo perché non dobbiamo mai smettere di pregare come il padre del ragazzo epilettico: «Credo; aiuta la mia incredulità!» (Mc 9,24). Perché la nostra fede contiene sempre un "se poi...", un dubbio che ci spinge a lasciare una riserva "non fosse mai che...", magari un mucchietto di farina e poche gocce d'olio, caso mai il Signore non mantenesse la sua parola. Ma se c'è quel "se poi..." non c'è più l'azzardo, e senza di esso viene a mancare la condizione affinché la farina della giara non venga meno e l'orcio dell'olio non diminuisca.

Quando ci raccontano di santi e sante che alla sera mettevano la borsa vuota davanti al crocifisso, dicendo: "Per domani non c'è più niente. Pensaci tu", e al mattino arrivava il soccorso, pensiamo: "Perché a me non succede?". Se non ci succede è perché non era vero che la nostra borsa era vuota; perché non avevamo messo tutto quanto avevamo per vivere.

Se vogliamo rafforzare la nostra fede, non partiamo dal moltiplicare le preghiere, dall'aumentare la frequenza ai sacramenti, dal dedicare più spazio alla carità, ma dalla capacità di fidarci del Signore, di azzardare con lui, altrimenti tutto il resto può diventare come il rumore delle molte offerte dei ricchi nel contenitore del tempio.


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